De Gregori fra Serravalle e Dylan

3 Novembre 2015 di Stefano Olivari

Il cantante con poco da dire ha davanti a sé tre strade discografiche, se proprio non vuole o non può ritirarsi: 1) Greatest hits; 2) Live; 3) Cover. Francesco De Gregori le aveva già da anni percorse tutte e tre, ma per la terza ha voluto stravincere e con il suo Amore e furto – De Gregori canta Bob Dylan è andato alla ricerca del Dylan meno conosciuto, nel senso di meno utilizzato per karaoke-gita (Desolation row e I shall be released non sono certo di nicchia) per riproporlo tradotto e degregorizzato, cercando una sintesi fra il periodo folk duro e puro e quello della svolta elettrica, che folgorò l’allora quindicenne Francesco. Qualche giorno fa siamo stati alla presentazione milanese del disco, insospettabilmente affollata da giovani, personaggi metropolitani (un rasta con l’eskimo che scattava foto un cellulare tipo Tacs, per dirne uno) e cougar in fregola da firma sul cd, con De Gregori che ha messo le mani avanti spiegando di non aver voluto fare filologia (diversamente i tanti ‘dylaniati’ italiani l’avrebbero massacrato a prescindere) e di non essersi nemmeno applicato troppo nelle traduzioni. A testimonianza di questo la canzone di apertura, Sweetheart like you che diventa un tremendo Un angioletto come te. Dall’album, che abbiamo ascoltato e riascoltato, è difficile staccarsi: crea un’atmosfera dylaniana ma con l’entusiasmo del fan e senza la spocchia dello studioso di controcultura che preso dalle sue toppe sui gomiti non si è accorto delle nuove idee ‘contro’. De Gregori addirittura ha spiegato (alla Feltrinelli!) di non avere mai letto libri su Dylan… Poi tutti vedono in qualsiasi cosa, a maggior ragione in un artista, ciè che desiderano vedere: secondo certe teorie l’assenza di spocchia di De Gregori (senza problemi a X-Factor a Carlo Conti, dal concerto per l’Expo fino al punto, di non ritorno, dell’outlet di Serravalle Scrivia) potrebbe essere essa stessa spocchia. Con questa furba operazione Dylan, cover ma senza le ambizioni pop di una Nannini, De Gregori prova a recuperare parte del suo pubblico storico, che dopo il suo smarcamento dalla sinistra colpevolizzante e la fiducia data al nuovo Anticristo (Renzi) lo ha un po’ abbandonato, rinfacciandogli anche un merchandising (le magliette ‘Pablo è vivo’, viste con i nostri occhi a un concerto) e una commercializzazione della sua storia che imbarazzerebbero Thohir. Al di là di queste seghe mentali il disco è davvero bello: non è lesa maestà affermare che nel 2015 De Gregori scriverebbe musica del genere, se avesse ancora l’ispirazione dell’epoca Rimmel.

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