The Program, Armstrong rimane un modello

13 Ottobre 2015 di Indiscreto

Tutti conoscono la parabola umana e ciclistica di Lance Armstrong: dall’operazione al cervello e ai testicoli con chemioterapia ai sette Tour de France vinti, passando per un doping organizzato in maniera perfetta e finendo con l’assurdo ritorno che ha riacceso i riflettori su di lui portandogli antipatie e testimonianze contro. Perché mai il campione americano, interpretato da un Ben Foster molto credibile, è stato trovato positivo all’antidoping (però c’è almeno un caso, il Giro di Svizzera 2001, in cui la positività fu insabbiata, per non parlare del Tour del 1999), ed in definitiva è stato rovinato dalle rivelazioni di chi per anni ha condiviso il suo modo di essere e di barare: Landis, Hamilton e tanti altri. Il film di Stephen Frears, appena uscito nelle sale, è basato su tre libri di David Walsh (L.A. Confidentiel, From Lance to Landis e Seven deadly sins) ed è dichiaratamente colpevolista. Non che Armstrong sia innocente, anzi l’essersi messo da solo nelle mani del dottor Ferrari gli dà un grado di consapevolezza superiore a molti altri dopati del ciclismo, ma il regista si dimostra incapace di collocare la sua carriera in un contesto, quello degli anni Novanta e dei primi Duemila, dove la regola era proprio l’aggiramento delle regole. Tanto è vero che l’UCI cancellando i Tour di Armstrong non li ha assegnati a Zulle, Ullrich, Beloki, Kloden, Basso, eccetera, dando implicitamente la patente di dopati, soltanto più furbi degli altri, a tutti i campioni dell’epoca. Decisione in ogni caso folle, che ha penalizzato la minoranza onesta, trattata mafiosamente dagli Armstrong e da altri sceriffi del gruppo: si pensi all’impatto mediatico di una maglia gialla riassegnata al settantesimo della generale…

Se la ricostruzione sportiva lascia un po’ a desiderare, le immagini di corsa da fiction sono bene alternate a quelle originali. E la psicologia di questo Armstrong da film è molto interessante, anche se del texano vengono ignorati gli inizi prima da nuotatore e poi da triathleta: insomma, un campione vero e non un turista americano diventato Superman grazie all’Epo. Che poi il fisico di Armstrong sia profondamente cambiato dopo quattro cicli di chemioterapia può essere dimenticato soltanto da chi invece esaltava le vittorie ‘tecniche’ dei nostri. Addirittura da Frears viene ignorato il Mondiale di Oslo del 1993, una delle poche grandi vittorie che gli sono rimaste insieme alla Classica di San Sebastian e alla Freccia Vallone, perché ottenute prima del tumore e da pulito o, come viene mostrato nel film, con un doping artigianale e nemmeno paragonabile a quello delle corazzate (anche italiane) dell’epoca. Insomma, si parte già a tesi ma il film poi si sviluppa bene perché dell’era Armstrong vengono mostrate non tanto le vittorie o il doping, ma la necessità della gente, di tutti noi, di credere in qualcosa.

L”Armstrong della fondazione, del Livestrong, delle conferenze, delle decine di milioni di dollari raccolte per la ricerca e di tutto il resto era un Armstrong vero, che ha dato speranze a migliaia di persone: cose leggermente più importanti dell’assegnazione di un Tour a Zulle o Basso. Frears ha comunque un’ottima mano (fra i tanti suoi film nostro preferito è My beautiful laundrette) e pur seguendo con precisione le tracce di Walsh (il giornalista irlandese del Sunday Times è uno di quelli veri, non soltanto per questa inchiesta) riesce a distinguere i piani. Il ciclista ha barato ed è giustissimo che gli vengano tolte le vittorie nel periodo incriminato, anche tenendo conto del contesto. Il simbolo invece era un simbolo con una sostanza dietro ed uno che ha fatto del bene all’umanità più di Ullrich, Pantani e Contador. In tre anni dall’anticamera della morte alla vittoria nel Tour, una lezione che rimane e che sarebbe stata tale anche con una partecipazione pulita al Tour arrivando ultimo. E la vittoria di Limoges dedicata a Casartelli, dopo una finta tappa di vero lutto, rimane una delle emozioni più forti mai date da questo sport. Conclusione? Film da vedere, perché è una grande storia e perché non mette d’accordo nemmeno con se stessi.

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