Zucchero da sessanta anni

25 Settembre 2015 di Paolo Morati

Zucchero

Adelmo Fornaciari da Roncocesi, in arte Zucchero, compie sessanta anni. Da suoi ascoltatori nonché ‘seguaci’ di lungo corso, noi lo celebriamo consapevoli ancora una volta di non trovare unanimità di giudizio su una storia artistica che lo vede oggi mettersi in rampa di lancio per la realizzazione di un nuovo album di inediti del quale non si sa praticamente ancora nulla, al di là del fatto che il lavoro di pre produzione è stato terminato e si è trasferito negli Stati Uniti per lavorarci. L’ultimo disco veramente nuovo, al netto della parentesi caraibica, risale del resto ormai a cinque anni fa. Si trattava di Chocabeck, bell’insieme dai sapori folk e immerso nell’universo della Bassa padana dove il nostro è nato e cresciuto prima del trasferimento in Versilia con la famiglia. Un viaggio sereno e quieto, ben accolto da critica e pubblico, fatto di buone canzoni (su tutte abbiamo amato Soldati nella mia città), lontano però dalle ritmiche scatenate di produzioni storiche e poderose quali Oro Incenso & Birra o Spirito DiVino, così come dal sound più black di Rispetto o Blue’s, ma che alla fin fine fu anche trascinato, ancora una volta, oltre che dal singolo di lancio (È un peccato morir) dall’up-tempo di un brano (Vedo Nero) indispensabile per scavalcare le barriere alzate da radio e giovani in cerca di movimento.

Zucchero musicalmente parlando può ormai permettersi di fare quello che vuole avendo in tre decenni sulla cresta dell’onda creato, sperimentato, rielaborato e attinto da più modelli di riferimento inseguiti fin da ragazzo. Al netto della lunga gavetta negli anni Settanta, se ripercorriamo la sua discografia si possono infatti ritrovare tante sfaccettature diverse in album che, pur avendo un filo conduttore comune – ossia un universo di contaminazioni di generi – è partito dal melodico italiano (il primo Un po’ di Zucchero, un tempo rinnegato, ma per noi da riprendere in mano calandolo nel giusto contesto storico) per poi, anche grazie all’incontro fatidico con Corrado Rustici, arricchirsi cammin facendo di una produzione di istinto americano che all’epoca (siamo nella metà degli anni Ottanta) sconvolse non poco il panorama della leggera italiana, con tante lusinghe e invidie, qualche rischio (il sofferto Miserere non fu capito in pieno) e l’apprezzamento del pubblico straniero e in particolare di quello europeo con sporadiche successive incursioni anche nelle classifiche inglesi e americane dove alla fine ha probabilmente raccolto meno rispetto a quanto seminato.

Detto che secondo noi Zucchero sarebbe utile ascoltarlo in un serio disco di cover ben strutturato e per un pubblico internazionale, se inediti devono essere li vorremmo meno allineati alle mode del momento per un ritorno alle origini, con un ripescaggio dei fiati, dei bassi pulsanti e delle casse rutilanti, con quei passaggi umorali che negli incipit dei grandi dischi trascinavano la tensione all’apice per poi spegnersi nelle ballad più dolci e delicate. Certo, era il Fornaciari giovane, capace di tirare fuori dai suoi cilindri, tube e cappelli vari un gruzzolo di trovate che oggi richiederebbero com’è nella natura delle cose un’energia e una sfrontatezza fuori tempo, considerato anche che saggiamente non sembra voler certo trasformarsi in macchietta per giovani a tutti i costi. Tuttavia il famigerato blues (nella realtà molto più un ventaglio di arrangiamenti) tanto citato più che da lui da chi si occupa di immagine e fa finta di non sapere che un Lightnin’ Hopkins nostrano resterebbe in una nicchia infinita, potrebbe comunque finalmente far capolino qua e là inserendosi in quel mix di soul e aperture melodiche del quale si sente sempre più la mancanza nelle onde radio italiane. In tal senso, un album lontano dalle mode sonore potrebbe rappresentare una ventata di aria fresca basata nel contempo su solide radici. E non è detto che il tour fatto lo scorso anno nei piccoli club americani non sia stata l’occasione per trovare la chiave giusta del nuovo insieme da inserirsi in una discografia dove, a ben ascoltare, di ripetizioni ce ne sono state realmente poche e trovano il tempo che trovano certe generalizzazioni sui giochi di parole nei testi, sempre tra l’impudenza, la goliardia ma anche la profondità della vita. Insomma, secondo noi per Zucchero è arrivato il momento giusto di chiudere un cerchio e ripartire con un album che riprenda musicalmente in mano il discorso dei suoni inizi e per la cui produzione finale non sappiamo ancora se sia stato confermato Don Was, un improbabile ritorno di Rustici (tanto auspicato da vari appassionati per quell’alchimia perfetta che sono stati capaci di creare) o un team completamente nuovo. Un cambio di rotta che necessariamente dovrà però riguardare anche i concerti.

Su questo punto tendenzialmente quello di Zucchero è ormai un pubblico adulto e rodato, con qualche incursione più giovane a formare con costanza le migliaia di persone che assiepano le sue esibizioni, senza però avere quel furore cross-generazionale di un Vasco Rossi. I suoi sono in buona parte concerti tirati a lucido, di grande qualità, puntigliosi e che filano via lisci con poche variabili e che soprattutto si basano inevitabilmente su canzoni che hanno fatto la storia, lasciando spesso fuori episodi poco conosciuti o lontani nel tempo. Ecco, ci piacerebbe che nel prossimo spettacolo si partisse da Canto Te o Una notte che vola via, che ci fosse un medley che mettesse insieme Stasera se un uomo con Senza Rimorso (a memoria, mai eseguita dal vivo), Torna a casa con Arcord e Nella casa c’era, anche con qualche inserto fuori programma. Poi, per carità, liberi tutti di cantare Senza una donna, Diamante, Baila (sexy thing), Il Volo, Con le mani e Per colpa di chi abbracciando di nuovo il gallo gonfiabile per far felice il pubblico più generalista tra un ‘saluta i tuoi’ e l’altro, ma anche di abbandonare tranquillamente Così Celeste (inspiegabilmente rallentata in La sesion cubana) o Indaco dagli occhi del cielo (cover dei Korgis che non abbiamo mai amato particolarmente) per far spazio a piccole gemme di sofferenza come Eppure non t’amo e alla auspicabile chiusura con Rispetto e Donne (che ha appena compiuto trenta anni e da troppo tempo è nel dimenticatoio, nonostante le promesse). Sappiamo che non è facile, specialmente se devi costruire uno spettacolo per tanta gente che potrebbe ‘volere’ solo le solite note, ma il rinnovo, in definitiva, parte (e passa) anche dal passato. Quel passato che spesso è stato capace di rifare suo per portarlo nel futuro. Auguri Delmo, non ti curar di loro ma… passa di qui se ti capita.

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