Arcelli e De Lauretis, cosa lasciano i veri uomini di sport

3 Luglio 2015 di Oscar Eleni

Piangere amici perduti. Oscar Eleni lo fa volentieri. Ci hanno lasciato uomini perbene, gente di classe. Prima il professor Arcelli, poi, remando sul Tevere, Michele De Lauretis. Erano qualcosa di speciale per chi, come noi, ha viaggiato nel mare delle scoperte gioiose, l’atletica, quando in Gazzetta assumevamo, ma non volevano uno che scrivesse dello sport in cui era nato, subito dopo la sbornia di calcio milanista con un padre, il grande commendator Davide. Sì, grande anche se magari ci si scontrava, dirigente accompagnatore per oltre 16 anni, chi ha ricoperto questo ruolo sa come è difficile far andare d’accordo tutti: certo ai suoi tempi c’era cuore, anima, non agenti fra le balle, come dicevamo, dopo il calcio la ripicca del basket. Niente. Alla rosea volevano un praticante per le varie. Pazienza. Accettammo il sacrificio, Pensavamo fosse un sacrificio.

È stata la più bella avventura della nostra vita modesta, erano i giorni del fuoco acceso da Primo Nebiolo per portare uno sport nobile dalle pizzerie alla grande ribalta mediatica. Perché entrammo nella vera regina degli sport, ci fecero fare la gavetta con l’atletica che in quei giorni viveva l’olimpiade messicana e, subito dopo, l’aria melensa, sintesi meravigliosa di Alfredo Berra, un genio, un gigante, capo rubrica alla Gazzetta, degli europei di Atene che andarono, per l’Italia alla vigilia del meraviglioso Rinnovamento, anche peggio di quello si pensava, pur avendo campioni che oggi l’atletica cerca e trova con fatica, anche se qualcosa si muove. Vita nuova, cieli immensi, nascevano Mennea e la Simeoni che poi sono stati campioni epocali, ma non soltanto loro, cultura, stile, vivacità intellettuale con in pista gente come, Ottoz, Frinolli, Morale, i loro maestri, cominciando da Calvesi e Oberweger. Un regalo del destino.

Fu in quei giorni che conoscemmo il magico Arcelli dalla voce flebile, la cambiò con un intervento doloroso, perché era lui, ancora prima del professor Cacchi, un uomo straordinario, a cercare con Paola Pigni i confini del dolore, della fatica, della corsa prolungata. Una strana coppia dove Lei era l’alfa dominante, ma dove il prof riuscì a mettere tutto il suo sapere poi prestato al calcio, al grande ciclismo di Moser, fino all’esplorazione del mistero glorioso dei cibi giusti per chi fa sport massascranti e ha poco tempo per recuperare. Era geniale, era stupendo. Piangerlo non è debolezza. Solo amore perduto per un uomo che era davvero tutto quello che ci sarebbe piaciuto essere, senza riuscirci: colti, dolci, disponibili.

In quel viaggio che in Gazzetta durò fino al 1974 trovammo sulla strada della passione, della competenza, dello stile, anche Michele De Lauretis, nobile gentiluomo di terre aspre, svezzato dal cinismo romano, educato bene dalla Scuola dello Sport che ora ci manca tanto perché costruiva davvero allenatori e dirigenti di buonissimo livello. Michele e i suoi sogni con il circolo canottaggio sul Tevere, dopo essere stato per 9 anni (2000-2009) segretario della federazione ora diretta da Giuseppe Abbagnale, il primo a ricordarsi di questo principe nel giorno del lutto, prima dell’atletica dove era stato discreto ostacolista dei 400, a parte gli amici di sempre, cominciando da Frasca, Aquari e Lo Giudice, Barra, Colasante, mondo dove aveva lavorato benissimo come team manager delle Nazionali, sapeste come è dura fare un lavoro del genere in sport dove l’individuo si sente al centro del sistema, anche quando sbaglia preparazione, mettendo al servizio degli altri il suo modo di vedere la vita. Aveva conseguito un master a Lione nel 1997, era ricco davvero, ma dentro, magari anche fuori, ma lui non te lo faceva certo pesare.

Con Michele abbiamo passato tante ore bellissime in questi ultimi anni, quelli della caduta libera, del corpo, magari anche della mente. Gli volevi bene perché con lui si stava proprio bene e al suo circolo abbiamo festeggiato, con l’atletica che amavamo, gli 80 anni di Enzo Rossi, e la giornata del premio Coni per il libro su Rubini, anche se ci è dispiaciuto tantissimo non portare a quel pranzo anche Mario Celi, pure lui premiato dal Coni, capo dello sport al Giornale, un gentiluomo che hanno messo da parte perché ai presunti editori, oggi, purtroppo, servono più i prepensionamenti delle qualità professionali. Ci eravamo messi d’accordo, con Michele, per altre rimpatriate gloriose, magari con le ciliege di Barra in Toscana, per giornate da vivere seguendo i pensieri del danese Kiekegaard: La vita va vissuta in avanti, ma può essere capita solo all’indietro.

Ciao professore, addio Michele. Vi piango, vi abbracio nel sudario della morte. Arrivederci a presto.

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