Ivan Cattaneo, un marziano al Parco Lambro

26 Giugno 2015 di Glezos

Se nello showbiz tricolore esistesse il sogno di ogni intervistatore, be’, questo sogno sarebbe senza ombra di dubbio lui. Con Ivan Cattaneo ogni spunto è un tappeto che si srotola da solo: osservazioni, fatti, nomi e lampi si susseguono senza mai perdere il filo del discorso. E il pomeriggio diventa di quelli che non dimenticherai facilmente. La prima parte dell’intervista – dedicata ad aspetti più pop – l’abbiamo pubblicata qualche giorno fa su Spettakolo.it . Ecco la seconda parte, attesa da molti. Non a torto.

Partiamo da lontano. Ricordo un tuo intervento in un’assemblea al Circolo La Comune di Dario Fo in via Santa Marta a Milano nella primavera 1976, presenti Demetrio Stratos, Franz Di Cioccio, Giorgio Gaslini, Mauro Pagani e altri luminari. Avevi anticipato l’arrivo del punk, dicendo una cosa del tipo: “Voi non ve ne state accorgendo, ma sta arrivando un’ondata che vi farà fare la figura dei vecchi rincoglioniti. Credete davvero che tra un anno ve ne starete ancora lì tranquilli a raccontarvela in attesa della rivoluzione?”. Pensavo ti avrebbero fucilato sul posto.

IC: L’ho visto ultimamente. È una persona molto tranquilla, e mi ha fatto trasparire di essere un tipo che non vuole problemi né complicazioni. Uno che vive del suo lavoro, delle sue cose e della sua memoria, perché è un grande personaggio e questo l’ho sempre pensato. Non mi è mai piaciuto musicalmente, nemmeno all’epoca, anche se era un grossissimo personaggio da palcoscenico e aveva una sfrontatezza unica: era molto forte, sicuramente più forte di me. Lui mi adorava e ai miei inizi voleva produrmi, senonchè ci fu una lotta tra lui e Nanni Ricordi, che mi disse: “Se vai con lui con me hai chiuso, e non farai più niente”.

Escludi che Renato Zero avrebbe potuto essere un po’ geloso di te?

IC: Non lo so, ma mi ammirava molto. Anch’io ammiravo lui come personaggio, ma eravamo mondi completamente diversi. Per dire, recentemente Renato ha organizzato questa mostra nella quale esibisce i suoi vestiti di scena storici: io non potrei mai fare una cosa del genere, perché non ho abiti teatrali. Lui era un personaggio nato dalla fantasia, io ero punk ed ero uno di strada, che poteva abbinare le cose ma non farsele disegnare addosso. Lui non andava in giro con i vestiti che aveva sul palco, io sì perché erano i miei vestiti di ogni giorno. Io ero come mi vedevi.

Ripensandoci, ti sarebbe piaciuto essere prodotto da lui?

IC: Non mi fidavo. Non mi fido a farmi produrre da un altro artista, e in seguito proprio Renato ha dimostrato di non essere stato capace di tirare fuori quelli che produceva, da Yo Yokaris a Farida. Con l’eccezione di Caterina Caselli, che ha cambiato alcune regole nel nostro paese, gli artisti non sono capaci di produrre altri artisti.

Nemmeno Bowie con Lou Reed o Iggy Pop?

IC: In quei casi sì.

C’è un progetto che non hai realizzato e che ti è rimasto nel cuore?

IC: Tantissimi, hai voglia. A partire dal mio nuovo tipo di arte, che si chiama Tableaux Mouvants. Sono videoracconti, non necessariamente canzoni. O meglio, ci sono anche delle canzoni accompagnate non da videoclip ma da quadri che si muovono, dove io racconto delle storie a mo’ di storyteller. Ci sto lavorando da parecchio tempo. Sto preparando un dvd d’arte che comprende queste cose molto particolari, che partono dalla performance d’arte per arrivare anche alla canzonetta, volendo.

Rifaresti tutto nel modo in cui l’hai fatto?

IC: No. Sicuramente non dopo l’esperienza di essermi dato troppo per molti versi alla popolarità e alla televisione, che oggi per me è un demonio, sia guardarla che farla. Anche la troppa informazione non è un bene, e anche l’ultimo libro di Umberto Eco parla di questo, della troppa informazione che crea un romanzo e una drammaturgia: tutto diventa Bossetti e Yara, zio Michele e Sarah, e poi l’Isis viene fatta vedere in un modo che alimenta di tutto, e non capiscono che un’informazione così crea l’apologia. È come quando su Sky fai vedere Hitler: è vero che lo presenti come documento storico, ma diventa pericolosissimo perché alla fine di Hitler o Mussolini ne fai dei miti. Anche se ne parli male crei il mito, sempre. Quindi col senno di poi in televisione non ci andrei più, o meglio ci andrei se mi facessero fare quello che voglio io, ma siccome so che non sarà mai così e che sarà sempre peggio, beh, allora non ci vado e basta. Non mi vedrete dietro ai fornelli nel programma di Benedetta: a volte vorrei quasi essere così, ma non è nella mia natura. Perché quando vado a fare una tv che non mi piace dopo sto veramente male, torno a casa e mi metto a mangiare non stop: già il cibo per me è una droga, e quando sto male mangio anche di più. In questo periodo mi sono gonfiato, sono i problemi che hanno i vegani: sono vegetariano da 32 anni e non è una novità – checchè ne dica Red Ronnie -, ma vegano lo sono da relativamente poco e faccio molta fatica. Alla fine mi butto sulla pastasciutta: ho la sindrome di Orson Welles.

Intervista di Glezos, in esclusiva per Indiscreto

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