Cambiare gioco, Bollettieri ringrazia

1 Giugno 2015 di Stefano Olivari

Nick Bollettieri è uno dei due allenatori più importanti della storia del tennis, l’altro è ovviamente Harry Hopman, per come ha cambiato la mentalità dei suoi giocatori prima ancora del loro gioco. Per questo ci aspettavamo molto dalla sua autobiografia ‘Cambiare gioco’ (titolo originale ‘Changing the game’), scritta insieme a Bob Davis e da poco uscita in Italia per Mondadori. Arrivato quasi venti anni dopo il divertente ‘My aces, my faults’, raccolta di aneddoti spesso strepitosi, questo libro avrebbe potuto essere la summa del pensiero dell’84enne coach ma al 90% è invece un elenco di tutti i tennisti allenati e delle persone che nel corso di sessant’anni hanno finanziato i camp e le altre sue iniziative. Uno schema non nuovo nei libri di tennis, dove (specialmente gli sponsor) tutti sono grandi amici e grandi signori, ma che speravamo uno come Bollettieri confinasse in una piccola sezione dell’opera. Che si fa comunque leggere, non fosse altro che perché l’argomento ci interessa tantissimo, ma aggiunge poco alla conoscenza non diciamo di Agassi, ma anche di Jimmy Arias (per molti aspetti il primo vero campione di Bollettieri, anche se molti anni prima aveva allenato un Brian Gottfried bambino).

Dalle oltre trecento pagine emerge però lo stesso la straripante personalità di quest’uomo che come giocatore è arrivato al massimo nella squadra del college: otto mogli, sette figli, rovesci finanziari sempre affrontati con ottimismo fino alla ricchezza raggiunta quando la baracca è stata rilevata dalla IMG, una fiducia cieca in se stesso e nelle proprie idee. Tutt’altro che militaresche, come spesso si dice: fra l’altro Bollettieri, descritto come ‘ex marine’ nemmeno avesse combattuto in Vietnam, nell’esercito ci è stato soltanto due anni e non certo al fronte. Un pregio del libro è senz’altro l’onestà di Bollettieri, che non si attribuisce meriti di altri: gli Agassi e i Courier che si presentarono da lui a 14 anni erano tecnicamente già formati, versioni miniaturizzate degli Agassi e dei Courier che qualche anno dopo sarebbero arrivati in cima al mondo.

Lui ha in sostanza lavorato su tre tipi di giocatore: il bambino di talento (Sharapova, Kournikova e Seles), l’adolescente da motivare, al quale insegnare etica del lavoro e disciplina (i citati Agassi e Courier, ma anche le sorelle Williams e il nostro culto Aaron Krickstein), il campione emerso giovanissimo ma in un momento di crisi psicologica (Becker e la Pierce). Poi da Bradenton sono passati quasi tutti, anche soltanto per allenarsi in una bella struttura con i propri coach (Sampras, Stich, eccetera), ma il giocatore alla Bollettieri ha un marchio abbastanza preciso e fa sempre capire che la fama di motivatore del coach non è usurpata. Tra le righe si intuisce la sua predilezione per Tommy Haas e proprio nelle righe è esaltato lo spirito di Raffaella Reggi, che ancora oggi Bollettieri cita come esempio agli allievi più giovani, mentre si capisce che il rapporto con Agassi è ancora irrisolto al di là dei complimenti di circostanza. Ad Andre è legato il maggior dolore tennistico della sua vita, cioè il fatto di essersi seduto nel suo box quando al Roland Garros 1989 giocò al terzo turno contro Courier, che quando vide la scena lo guardò smarrito come a dire ‘Perché mi fai questo?’ (poi vinse Courier, per la cronaca, in una sorta di anticipo della finale del 1991).

In definitiva meglio Bollettieri, letteralmente inventatosi coach di elìte dopo anni da maestro per cinquantenni in alberghi e resort, del suo libro. Particolarmente ficcante quando, al contrario di tanti altri allenatori che vogliono essere gli unici riferimenti dei ragazzi, non demonizza l’ambizione dei genitori ma anzi la ritiene necessaria: riesce a trovare parole buone anche per Mike Agassi, Richard Williams e addirittura Jim Pierce… Interessanti le considerazioni finali sul futuro del tennis americano e mondiale: il tennis anche a livello juniores costa parecchio, fra spostamenti e tutto il resto può essere quantificabile in 150mila euro l’anno per persona, quindi l’unica strada non può che essere quella di concentrare i talenti adolescenti in poche academy di elìte (sottinteso: la sua è la migliore) per poterli gestire in piccoli team con propri sponsor e finanziatori. Quello che non si può insegnare né finanziare, detto da un motivatore come lui suona credibile, è la spinta verso il proprio miglioramento.

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