Un enforcer per Steph Curry

26 Maggio 2015 di Stefano Olivari

Al decimo replay della caduta di Steph Curry che lo ha di fatto levato dalla garaquattro contro i Rockets, anche se poi è rientrato eroicamente ma piuttosto confuso e condizionato, ci siamo convinti che Ariza l’abbia fatta abbastanza sporca, andando oltre la normale furbizia dell’attaccante che esegue un arresto improvviso aspettando il fallo. Diciamo che sarebbe da considerare un episodio sfortunato, se non ci fossero i precedenti di Ariza versus Steph che invece ci sono. Ma al di là del caso specifico, che forse non avrà conseguenze sportive perché gli Warriors hanno negato (almeno fino ad ora) anche la sola ipotesi di ‘concussion’, è ormai evidente che in tanti hanno la tentazione di fermare  l’MVP, 1.91 di statura e 86 chili dichiarati (a occhio 1.85 e 75), facendogli molto male. Situazione che nelle probabili Finals con Cleveland, ormai ridotta a LeBron più gregari e mazzolatori, potrebbe essere ancora più evidente. Non è che si possano fare acquisti adesso, quindi il discorso è più per il futuro: anche nella NBA di oggi, così come in quella degli Ottanta e di parte dei Novanta (quella dei Settanta è in questo senso fuori categoria) c’è bisogno di quello che l’hockey su ghiaccio viene eufemisticamente definito ‘enforcer’. Non il bastardo che nell’hockey non si fa alcun problema nell’andare dritto sull’avversario da togliere dal gioco o da punire per un fallo precedente, ma semplicemente uno che faccia sentire il fisico con qualche fallo di quelli giusti. Nella rosa degli Warriors il fisico adatto ce l’avrebbe Speights, ma si sta raffinando troppo ed è rimasto a metà del guado, mentre la durezza mentale ce l’ha Draymond Green che però è diventato troppo forte per questi lavori sporchi. Gli altri grossi, Bogut ed Ezeli, non sono abbastanza cattivi. Va detto che in nessun caso si potrebbe arrivare alle vette di Maurice Lucas o alla scientificità dei Bad Boys di Detroit, perché nei primi anni Novanta si è iniziato ad espellere sul serio, punendo poi il taunting (cioè l’atteggiamento di esagerata sfida, più o meno gridata, nei confronti degli avversari), e infine, dalla stagione 1997-98 (l’ultima del ‘vero’ MJ, sorvolando sul rientro a Washington di tre anni dopo) chiudendo l’era dell’hand-checking prima della sua ufficiale abolizione a partire dalla stagione 2004-05. In altre parole, chi è stato un grande attaccante nella NBA fino alla fine dei Novanta lo è stato in un contesto molto più violento e intimidatorio e il ‘Jordan oggi segnerebbe 50 punti a partita’ è meno bar di quello sembra. Il che non significa che i giocatori tecnici come Steph non vadano protetti, anzi è ancora più necessario oggi in una lega dove l’immagine di machismo deteriore non è stata ancora ripulita dai vari ‘NBA Cares’.

https://youtu.be/8kyvnmCapAk

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