La sintesi di Cruijff

21 Aprile 2015 di Simone Basso

Rick Barry dovrebbe essere incluso nelle discussioni, fumose, sul cosiddetto GOAT. Il ’75 rappresentò la sua rivincita, lui che passò una vita contro tutti: avversari, compagni, allenatori, dirigenti, giornalisti… Era il nuovo Barry, non più lo slasher strapotente, il solista con la mitraglia degli esordi ma, comunque, un campionissimo fuori categoria. Formidabile nell’uno contro uno, nel procurarsi tanti liberi che tirava come il manuale insegna (a due mani, da sotto); sensazionale, uscendo dai blocchi, col jumper o il passaggio al bacio. La prima vera point-forward, con un’intelligenza cestistica unica, che leggeva il campo e le situazioni. Un fenomeno che rimarrà, per sempre, il solo bipede a fregiarsi dei titoli di capocannoniere Ncaa, Nba ed Aba. Nel 1976 i Warriors erano anche meglio (al draft scelsero Gus Williams al numero venti..), smarrirono la doppietta imbattendosi nei Suns dei miracoli (Adams, Westphal, Sobers, Perry, Erickson, etc.).  Persero l’occasione favorevole in una Gara6 tiratissima e capitolarono in casa, in quel di Oakland, nella bella. Vi invitiamo a recuperare il film della quarta partita della serie, epica, due supplementari (conclusa 129-133..): entra di diritto nel catalogo impossibile degli incontri più belli.

Il 25 Aprile Johan Cruijff spegne sessantotto candeline. Siamo cresciuti con “Il profeta del gol” di Sandro Ciotti e l’abbiamo rincorso fino al tramonto della carriera, al Feyenoord, quando l’usura e il tabagismo avevano limitato l’incredibile dinamismo. Bastava però osservarlo toccare la palla, da fermo, per riconoscerne l’eccezionalità. Di quelli visti in diretta, lui e Maradona sono stati il non plus ultra: Giovannino Piedipiatti della vecchia Europa, Dieguito della scuola sudamericana. L’odissea del numero quattordici, esaltante, è inscindibile dal concetto – rivoluzionario – di calcio totale, dal triennio dell’Ajax vincitutto. La tecnologia e le comunicazioni hanno facilitato il compito: siamo riusciti a completare le visioni mancanti, alla stregua di Hana Mandlikova, Freddy Maertens, Roger Brown, Franz Klammer. Le polaroid più importanti son quasi banali da elencare: una Coppa Campioni vinta contro l’Inter (1972) facendo il torello (sic) nella trequarti nerazzurra; quel 4-0 chirurgico al Bayern, nell’edizione seguente; l’ultraviolenza del duello (impari per la Selecao) tra Arancia Meccanica e Brasile nel Mondiale 1974. E l’impressione che Cruijff pensasse il gioco, anticipando le mosse degli altri ventuno sul campo, per novanta minuti filati: aveva a fianco i Neeskens, i Krol, i Keizer, una nidiata pazzesca di talenti. Eppure l’apogeo fu l’incipit al Barcellona, quando riportò una nobile decaduta in cima alla Liga. Poi l’America, l’addio alla nazionale, l’ego ipertrofico del campione azienda, il ritorno all’Ajax e il dispetto di Rotterdam. Sintetizzare è impossibile, ma una frase di Jorge Valdano lo descrive bene. “Un leader naturale con un orgoglio maleducato da eccesso di vittorie. La base del suo talento era l’inganno. Correva veloce perchè stava per rallentare, rallentava perchè era pronto per ripartire, fintava il passaggio perchè stava per passare, guardava a sinistra perchè preparava una soluzione sulla destra”.

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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