Una vita, il giornalismo di Massimo Fini

8 Marzo 2015 di Stefano Olivari

Massimo Fini è una luminosa eccezione nel giornalismo italiano, restringendo il discorso a chi come lui ha fatto carriera: non ha mai fatto parte di alcun gruppo, né strutturato né improvvisato, quindi ha pagato la sua indipendenza con periodi di disoccupazione e soprattutto con la targa di ‘inaffidabile’, dove per inaffidabile si intende semplicemente uno che pensi con il proprio cervello. Il suo Una Vita. Un libro per tutti. O per nessuno, edito da Marsilio è quindi per forza di cose un’autobiografia diversa dalle altre, soprattutto da quelle giornalistiche.

Al netto dell’autocelebrazione, a cui nemmeno Fini sfugge, è la storia di uno che nel giornalismo ha creduto davvero, pur non volendo migliorare il mondo (che non ama, di qui il costante rifugiarsi nel passato) né sopravvalutando l’impatto di ciò che si scrive. Certo è che Fini racconta benissimo più di mezzo secolo di mutamenti sociali italiani, anche attraverso le sue frequentazioni e i tanti personaggi conosciuti bene o soltanto attraverso il filtro del lavoro, senza porsi il problema alto-basso: da Nureyev a Martelli, da Catherine Spaak a De Bortoli, da Sgarbi a Berlusconi, nessuno viene messo su un piedistallo né infangato gratuitamente. È significativo che Fini ritenga vero giornalismo l’inchiesta e la cronaca, mentre non ha grande simpatia per il commento, da molti considerato un punto d’arrivo e che lui stesso è costretto a praticare a causa del personaggio che si è costruito addosso.

Tutto è avvolto da una nostalgia ammorbante, che Fini riesce a trasmettere anche a chi pensa che il meglio debba ancora venire. La parte più interessante è quella riservata al giornalismo in senso stretto: Fini ha trascorso i migliori anni della sua vita all’Europeo con le direzioni di Tommaso Giglio e Vittorio Feltri, ha amato Montanelli e mai e riuscito a lavorare con lui, ma è rimasto legatissimo all’Indipendente di Feltri: un breve periodo, ma inserito nella fine della Prima Repubblica che quel giornale poteva raccontare senza appartenenze, un’esperienza finita con l’approdo di Feltri al Giornale proprio come successore di Montanelli.

Molto strano il rapporto con Berlusconi, nelle sue varie incarnazioni di costruttore, editore, presidente del Milan e politico: Fini ha sempre detestato il berlusconismo, avendolo raccontato con almeno un decennio di anticipo rispetto ad altri. Un’inchiesta su Milano Due e sulla vita plastificata e borghese a cui aspiravano in tanti aveva per la prima volta fatto capire che cosa si muovesse di profondo nel paese, con buona pace di chi nel 1994 si sarebbe stupito del successo di Forza Italia. La critica di Fini, tifoso del Torino, al berlusconismo è molto più sottile di chi ne fa una questione giudiziaria o, peggio ancora, di morale privata, per questo ogni volta che è stato in lizza per una qualche direzione gli sono stati preferiti personaggi ritenuti più affidabili, nel senso deteriore dell’espressione.

Il problema, in termini di carriera, è che Fini è anche sempre stato anticomunista, come quasi ogni socialista milanese, quindi nemmeno ha potuto entrare nell’altro giro di direzioni e raccomandazioni. Ma proprio questa strana situazione gli ha dato la forza per resistere a periodi neri, ironie di colleghi più integrati, situazioni private anche dolorose. Nel libro non mancano le donne di Fini, tante e nemmeno tanto sottilmente disprezzate (in favore della ‘femmina’, giustificazione dell’autore) citazioni di altre sue opere: sono le parti peggiori, un po’ forzate e autoreferenziali.

Non è in definitiva questo il suo libro migliore, avendoli letti quasi tutti possiamo dirlo: La ragione aveva torto? il più profondo, Catilina quello in cui il suo antimodernismo si coniuga meglio con l’analisi storica, Il Mullah Omar il più furbo, da polemica telefonata. Da vero giornalista, Fini ammette e teorizza l’impossibilità di scrivere romanzi per chi come mestiere deve raccontare e a volte spiegare la realtà, anche se un’incursione (dimenticabile) nella narrativa l’ha fatta anche lui. Fini gioca a fare il nichilista, ma la passione ardente per il suo mestiere non si è ancora spenta. Incredibile che uno come lui sia usato in tivù e sui giornali solo nel ruolo, in fondo conformistico, dell’anticonformista. Ma del resto alla maggior parte degli editori interessa soltanto avere in mano un’arma di ricatto e pressione, da far maneggiare a killer affidabili. E Fini è un grande giornalista, che si vergognerebbe di essere considerato affidabile.

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