Molto di nuovo sul fronte occidentale

10 Marzo 2015 di Simone Basso

Presentare i playoffs Nba a Marzo, con le griglie ancora incerte, ci diverte. Perchè, troppe volte, ci si dimentica che il risultato ha a che fare con la logica e il caos, due fattori apparentemente inconciliabili invece – nella realtà – strettamente correlati. Silverplanet appassionante e incerta quanto asimmetrica, sbilanciata – nella qualità e nella quantità – verso il Pacifico. Appunto, le New Orleans che stanno a Ovest, e che la post season magari la vedranno in tivù, collocate dalla parte atlantica sarebbero da corsa. Così, meglio analizzare l’ambaradan per quello che è: la finalista occidentale, novanta su cento, farà la parata con il Larry O’Brien Trophy sul bus scoperto.

Allora non possiamo sottovalutare le altre corazzate. I Blazers avevano, prima dell’infortunio a Matthews, il miglior quintetto della lega e lo sfruttavano: lo Spalding viene condiviso da tutti ed esibiscono in punta Lillard, Isiah due punto zero, e sulle tacche Aldridge, che (con quelle mani) fa tanto McAdoo. Gli Spurs paiono all’epilogo di una dinastia che ha fatto scuola. Malgrado l’applicazione ossessiva del Good To Great, scontano una sorta di appagamento (mentale più che fisico) di alcuni e la spia in riserva di Tonino Parker. La lezione è banale: mai sottovalutarli, ci sono i prodromi di un epilogo di regular a manetta…
Rimangono un cliente pessimo da affrontare in un best-of-seven, per esperienza (alle alte quote) e profondità del roster. I Clips sarebbero fortissimi se riuscissero a innestare tutte le armi a disposizione: nella serata perfetta, sviluppano l’attacco più devastante dell’empireo. Il problema è dietro, in difesa, e nella discontinuità quasi patologica. D’altronde, può una franchigia innalzare il banner se l’uomo più intimidatorio è la – straordinaria – point-guard alta appena sei piedi? Le altre due texane rappresentano enigmi che risolveremo a Maggio.

Fa specie vedere il basket percentuale più estremo, ossia ricerca spasmodica della tripla o del lay up e abolizione del long two, applicato da un collettivo (i Rockets) allenato da Kevin McHale. Uno che, in canotta e calzoncini, è stato un’enciclopedia del gioco spalle a canestro. E chissà che effetto avrà il rientro dell’ingombrante Howard, in una Houston dove il Barba Harden è il factotum, fonte e finalizzatore, circondato da un rebelot di bulli senza un vero ruolo ma tostissimi (Beverly, Ariza, Motiejunas). Di sicuro, in quel di Dallas, l’arrivo di Rajon Rondo ha complicato (e non poco) le strategie di Rick Carlisle. Avevi bisogno di un (altro) All Star, dotato quanto problematico (per il ritmo offensivo), quando disponi di una Elle, irrisolvibile per qualsiasi difesa, che coinvolge Monta Ellis e Dirk Nowitzki? Il selvaggio West, strapotente, proporrebbe temi anche al di fuori delle anellabili. Attendendo che qualcuno, sulle rive del Mississippi, costruisca un’armata attorno all’incredibile Anthony Davis, troviamo affascinante – ai Kings – l’accoppiata Karl-Cousins. L’allenatore, che sperimentò Il Manicomio dei Sonics anni Novanta, ci pare l’ideale per dialogare col Derrick Coleman de noantri.

Il campionato col logo di Jerry West vive di dinamiche abbastanza consolidate, mettendo assieme le doppie v con gli affari. I piani, solitamente quinquennali, prevedono un investimento – anche emotivo – su un gruppo di giocatori e di tecnici. Talvolta si fanno così bene le cose, che le aspettative generate producono una pressione ingestibile: Thunder e Bulls, una per conference, illustrano questo concetto. Il personale da anello potrebbe anche non portare alla sfilata in giugno. E l’inizio del conto alla rovescia, prima dell’eventuale smobilitazione, fa un rumore bianco che nemmeno il primo Penderecki potrebbe riprodurre… Oklahoma City naviga a vista, con un Durant a mezzo servizio e mosse di mercato (tipo l’acquisizione del sopravvalutato Waiters) che odorano di ultima spiaggia. Westbrook è il più grande atleta negli spot di guardia dai tempi di Michael Jordan: le cifre da Oscar Robertson, e una cazzimma infinita, lo confermano. Purtroppo lo stile libero (…) dell’ex Ucla alimenta diversi effetti collaterali: lui difende alla Alvin Robertson (quindi gioca solo per il recupero e lascia i compagni a gestire un quattro contro cinque..) e, slasher provetto, non permette fluidità offensiva ai suoi.

La situazione dei Bulls è simile. A dispetto dell’esplosione di Jimmy Butler (epitome del Two Way) e di un Pau Gasol principesco, alcune notti Chicago non pare recepire al cento per cento i dettami (o i diktat) di coach Thibodeau. Difesa così così, sulle montagne russe, anche se certi particolari (le rimesse) testimoniano il marchio di fabbrica. In attesa del rientro dall’ennesimo infortunio di Rose, ahilui Phil Ford degli anni Dieci, il momentum sta per arrivare. La tradizione dei Bulls, rispetto a Celtics o Lakers, è fresca ma The Last Dance di Jordan e Pippen risale al 1998: c’erano ancora le videocassette.

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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