Dal Paninone al kebab, solo andata

20 Marzo 2015 di Paolo Morati

Paninone

Via Cesare Correnti è una di quelle strade intermedie di Milano. L’hai sentita nominare ma magari non ti ricordi dove si trova. Eppure è una strada importante, storica (ci abitò per un breve periodo Giuseppe Verdi), che collega il centro dalla fine di via Torino partendo dal Carrobbio per andare a intersecarsi con Via De Amicis. Dietro, a pochi passi, c’è l’Università Cattolica e dall’altra parte si arriva alle Colonne di San Lorenzo. Proprio lì, al numero 23 di Cesare Correnti, una volta si trovava un piccolo bar chiamato Il Paninone dove un gruppo di ragazzi trascorreva i dopo partita del venerdì sera, ossia da quando dal 1987 il loro San Siro era il Parco di Trenno. Era l’epoca in cui i campetti privati avevano ancora terra e ghiaia anziché la comoda erba sintetica odierna e Trenno offriva (come ancora oggi del resto) ottimi spazi dove organizzare partite serali sotto i riflettori degli altissimi lampioni. A quel tempo, per quel gruppo non c’erano stagioni che tenevano, che fosse l’inverno ghiacciato o l’estate torrida e piena di zanzare, non si sgarrava: il venerdì sera la partitella (almeno un paio d’ore…) e poi di corsa al Paninone. Prima in bicicletta e successivamente in macchina, con tutti i problemi di parcheggio della zona, non si sa bene perché quando si poteva andare in un posto più a portata di mano.

Il Paninone era un locale (nel senso di locale, cioè sostanzialmente una stanza stretta e lunga) a conduzione familiare. Di giorno era gestito dal padre e dal figlio minore, il taciturno Luca, la sera dalla madre Luigia e dal figlio maggiore e più loquace Lino. Tutti con la L il che faceva pensare che anche il capofamiglia avesse la stessa iniziale (Lorenzo? Leonardo? Mai saputo). I calciatori del venerdì lo frequentavano soprattutto la sera, ma nel mentre raccoglievano conferme che anche di giorno era considerato un ‘must’ della zona, soprattutto per anziani e pensionati assettati di bianchino della casa e studenti squattrinati in pausa prima della lezione successiva. Appena entrati, sulla parete di destra stazionava un juke box che permetteva di gettonare la musica preferita (un anno, era ormai il 1995, andava fortissimo Voglio andare a vivere in campagna di Toto Cutugno) mentre a sinistra, lungo il bancone, tra i fedelissimi avventori serali si potevano incrociare il signor ‘Corda’, soprannominato così per la corda grigia che gli teneva su i pantaloni a mo’ di cintura, ‘Buco in testa’, un malcapitato che aveva una grossa infossatura sul cranio, e la ultra cinquantenne ’Grace’, trans della prima ora dai riccioli corvini. A loro potevano aggiungersi di volta in volta metronotte, bande di giovani (con i quali una sera ci fu il rischio di uno scontro frontale per il furto di una birra a un amico), oltre a innocenti e validi calciatori, nei giorni di pioggia inevitabilmente ancora infangati.

Ma al Paninone non importava come ti presentavi, bensì come ti comportavi. In poche parole, non dovevi creare problemi. Ambiente più che informale, silenzioso, prezzi modici (con un biglietto da cinquemila lire portavi via un ricco sfilatino imbottito più una media chiara) e simpatia del personale. A Paolo e al suo grande amico Roberto (che Lino aveva soprannominato Mister H ignorandone il nome), veniva riservato un trattamento di favore, il cosiddetto panino ‘Creazione’, ossia: “Fai tu, mettici dentro quello che vuoi…”). Alla cassa era poi sempre un problema sapere quanto farlo pagare non essendo compreso nella lista d’offerta, che svariava dal Classico al Cosacco passando per il Messicano e il Boscaiolo fino al Tirolese e al Delicato (mozzarella e prosciutto senza salse piccanti, in pratica). Tutto realizzato a vista dal fido maître sempre in piedi al di là del bancone a pescare con sapienza da immensi barattoli di sottaceti e salse, nonché affettati, formaggi, fino alle molto richieste uova fresche che campeggiavano in bacheca. Prima di ordinare, però, appena entrati la cosa più importante era accaparrarsi subito una delle sedie di legno ex laccato bianco, disponibili in numero assai risicato. Postazione migliore in fondo al bar, nella ‘saletta separata’ vicino all’oscuro bagno con un paio di tavolini, dove ci si poteva allietare la vista con un ritratto di Marilyn, nonché d’estate aprire la porta sul retro per fare un po’ di corrente. Retro dal quale uno degli innumerevoli venerdì sera un gruppetto di avventori scappò via senza aver pagato, con reazione a dire il vero molto signorile dei gestori.

La frequentazione del Paninone proseguì per molte stagioni nel corso delle quali alcuni di quei ragazzi si trasformarono da adolescenti in padri di famiglia, ma un triste giorno le donne della compagnia, che al venerdì si ritrovavano in una palestra nei dintorni per giocare a pallavolo, rovinarono tutto imponendo il trasferimento in un bar più fighetto, operativo in zona. Con la scusa che c’era più posto e offrivano patatine e bruschette gratis. Venduti, insomma, al miglior offerente per quattro antipasti riciclati… Tristezza delle tristezze, da lì a pochi anni Il Paninone chiuse i battenti, si disse (ma non c’è stata mai la conferma), per la scadenza del contratto di affitto. Oggi al suo posto c’è, segno dei tempi, un Kebab (che a noi tra l’altro piace molto, senza cipolle però), ma viene ancora ricordato oggi con affetto e nostalgia (locale e gestori) da quei ragazzi, come uno dei simboli della cara Milano. Quella dei loro (e dei nostri) anni migliori.

Paolo Morati, in esclusiva per Indiscreto

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