Il Panda Artest e la parrocchietta rosicante

27 Marzo 2015 di Stefano Olivari

I rosicamenti per l’arrivo a Cantù di Ron Artest, Metta World Peace, The Panda’s Friend o come si chiamerà domani, hanno in maniera divertente messo a nudo meccanismi mentali da parrocchietta, applicabili un po’ a tutte le discipline sportive ma che per vari motivi nella pallacanestro sono più evidenti che altrove. Rosicamenti non tanto dei tifosi di altre squadre italiane, che anzi fanno dell’ironia (sia pure un minimo rosicante) sul fatto che il 36enne Artest sia finito o che nella migliore delle ipotesi sia venuto in Italia in semi-vacanza, ma di buona parte degli addetti ai lavori-livori che in questi giorni stanno mettendo in piedi una festa del distinguo e dello ‘staremo a vedere’. C’è in realtà poco da stare a vedere, al di là delle condizioni fisiche del giocatore, perché non si possono cambiare caratteristiche tecniche alla sua età: grande difensore, soprattutto individuale, in più ruoli, attaccante disciplinato ma incapace di costruirsi dal palleggio un tiro credibile in assenza di un gioco di squadra, non una stella NBA (come erano stati, per dire, McAdoo, Gervin o Wilkins) ma personaggio carismatico e molto rispettato dalle stelle vere. In altre parole: un giocatore da club di di prima fascia di Eurolega, non per la Cantù 2014-15 che ha come massimo obbiettivo un posto ai playoff possibilmente schivando Milano nei quarti. Questo non toglie che con meno di 50mila dollari, cifra con cui certe squadre nemmeno pagano il dodicesimo a referto, la Vitasnella abbia fatto parlare della serie A italiana in tutto il mondo. Cosa che i grandi patron, i direttori sportivi geniali, gli allenatori spocchiosetti del genere ‘La NBA è un cesso’, i giornalisti che faticano a spezzare con il popolo il pane della loro scienza, messi tutti assieme non sono stati capaci di fare. Senza dimenticare che Artest non trasformerà Johnson-Odom in Westbrook, ma farà tornare anche in Italia uno dei motivi più belli per andare al palazzetto, di cui ci eravamo quasi dimenticati: quello di vedere, per pura curiosità, la stella della squadra avversaria. Poi c’è chi preferisce i 30 pick and roll di fila di anonimi tatuati e magari si lamenta del fatto che i quotidiani generalisti nemmeno mettono più la classifica della A.

Twitter @StefanoOlivari

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