Aida, un bel suicidio senza trionfo

27 Febbraio 2015 di Stefano Olivari

I loggionisti della Scala ricordano di solito certi meccanismi psicologici del nostro Muro del Calcio (Aaaah, le finte di Scarone…), ma abbiamo avuto la fortuna nei giorni scorsi di trovarli in buona. Alla fine della rappresentazione di Aida, tenutasi proprio alla Scala e a cui Indiscreto era presente (a marzo tre altre repliche), hanno premiato con applausi un po’ freddi ma pur sempre applausi il lavoro di Zubin Mehta (sostituto del defunto Lorin Maazel) e dei protagonisti: la soprano Kristin Lewis, credibile Aida e non solo per il colore della pelle (trattandosi di una schiava etiope, non è che possa essere bionda) e il tenore Fabio Sartori (ma Radamès con la pancia non si può vedere, pur non pretendendo Russell Crowe stiamo parlando di un condottiero). Addirittura un boato per la mezzosoprano Anita Rachvelisvili, per quel quasi zero che capiamo ottima Amneris con licenza poetica (il regista Peter Stein la fa suicidare alla fine, al pari di Radamés e Aida: cosa che nel libretto originale non accade, ma che per l’evolversi della storia ci può stare ).

In un teatro relativamente piccolo la coreografia non poteva essere quella delle rappresentazioni all’Arena di Verona, con elefanti e centinaia di comparse, anche  se nostro nonno asseriva che negli anni Trenta un’Aida alla Scala fosse stata dotata di elefanti veri: come contraddire una persona morta da 36 anni? Ma al netto degli elefanti e di quel trash che viene ritenuto parte integrante della lirica (le cui trame sono più improbabili di quelle di Beautiful), l’ambiente non è nemmeno stato alla Zeffirelli: forme pulite, senza orpelli, ai confini del concettuale. E le scene del trionfo molto al ribasso, senza nemmeno i consueti balletti e in generale senza troppa enfasi: ma come si fa a proporre un trionfo, soprattutto un trionfo come quello scritto da Verdi, senza enfasi? Abbiamo letto che Stein, famoso regista teatrale (e marito di Maddalena Crippa), in conferenza stampa si è vantato di questa scelta fenomenica, come se fosse un colpo di genio: un po’ come un progettista di Formula Uno che esalti la lentezza della sua auto.

Non vogliamo ovviamente esibirci in una recensione, anche di un’opera che conoscono tutti almeno per quanto riguarda la prima parte (o i primi due atti, seconda del regista), ma sottolineare una cosa che applichiamo di solito allo sport e che si può portare anche in altri ambiti: il già citato diritto alla superficialità, che permette di apprezzare il genio in vari campi senza per forza esserne esperti. La milionesima partita di basket ci permette di notare un blocco aggiustato in maniera irregolare o la scelta difensiva di farsi battere sul primo palleggio per scommettere sul recupero immediato, ma non si può rifiutare a prescindere il resto del mondo. Viva Aida, un libro divulgativo di fisica, una curva di Anna Fenninger, una mostra sugli Ittiti, una replica di Kiss me Licia, una conferenza su Melanie Klein, un sedicesimo di finale di Europa League, pur non capendo sostanzialmente niente di tutti questi argomenti.

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