Il diavolo veste Zara, mode e vite precarie

26 Gennaio 2015 di Paolo Morati

Il diavolo veste Zara

Chi cerca un romanzo che racconti i dietro le quinte del mondo della moda non deve certo pensare di trovarlo in Il diavolo veste Zara (Mondadori) di Mia Valenti. O meglio, non si deve aspettare che vi  vengano svelati particolari segreti o comportamenti di un contesto già ampiamente raccontato da altri autori in passato. Lo schema è quello collaudato e noto di (il titolo certo non lo nasconde) Il diavolo veste Prada di Lauren Weisberger, dal quale fu tratto l’omonimo film con una straordinaria Meryl Streep nei panni della direttrice della più importante rivista di settore, vessatrice della sua assistente. In questo caso si parla invece di una giovane fashion designer (che ha lo stesso nome dell’autrice, che svolge pari mestiere), schiavizzata dalla sua capa, Veronique, storica mente della casa fiorentina Luci.di. Insomma nulla di nuovo, almeno in apparenza. In Il diavolo veste Zara c’è infatti un secondo livello di lettura, più importante…

Chi cerca un romanzo attuale, capace di raccontare la vita odierna, di offrire uno stimolo a chi si sente in difficoltà e non ha il coraggio di farsi valere (sempre che di valore ne abbia) può infatti dedicare qualche ora alle circa 200 pagine nel corso delle quali la giovane Mia Valenti riesce a liberarsi del giogo e della sottomissione, azzarda e nel contempo trova per caso, in una cabina armadio, anche l’uomo della sua vita. Detta così, sbrigativamente, Il diavolo veste Zara potrebbe però venire equivocato come un romanzo a cavallo tra ‘rosa’ (e forse un certo pubblico femminile potrebbe esserne maggiormente attratto proprio per questo), crampi allo stomaco (quando si buttano giù bocconi amari) e sogni ad occhi aperti di arrivare al successo e realizzarsi.

Nella realtà più profonda Il diavolo veste Zara propone però (terzo livello di lettura) anche un punto di osservazione sul mondo di oggi sempre più interconnesso (i social network la fanno da padroni, le chat pure, gli smartphone e i tablet sono onnipresenti con i loro brand, forse troppo, in modo ossessivo) del quale si può essere sì schiavi (ci siamo segnati questa frase: “La vita è quella cosa che succede quando non sei connesso a Internet”) ma sono anche quegli strumenti che in determinati contesti permettono di raggiungere quel grado di tempestività indispensabile per rimanere sincronizzati e pronti a cogliere alcune opportunità che oggi è rischioso farsi scappare. Pena rimanere fuori dai giochi, oltre al loro ruolo di strumento per la inframmentabile comunicazione personale.

In Il diavolo veste Zara, Mia Valenti accende a tratti i riflettori sul fenomeno del precariato, e delle partite IVA, ormai diventato regola e non solo per i giovani. Il suo è un libro autobiografico che narra di uno scontro generazionale di visioni e ruoli, del destino della rottamazione di chi rimane arroccato su un passato ormai superato e della sfida lanciatagli da chi pensa di poter emergere (con il rischio di diventare il diavolo stesso…), con il settore della moda che fa da spettatore, scenario e ambiente all’interno del quale si verificano gli stessi fenomeni di tante altre industrie, al di là dei dietro le quinte di colore sullo sfondo – senza essere scabroso – dei quali dicevamo in apertura, e della profonda mutazione che da tempo sta vivendo e che l’autrice/protagonista stessa ha ogni giorno davanti agli occhi. Con il pregio (il più importante per un romanzo leggero) di non annoiare e far girare le pagine per sapere al più presto come va a finire.

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