A fondo senza la Belmondo

20 Gennaio 2015 di Simone Basso

Il Movimento Per un Ciclismo Credibile, che mette assieme diverse squadre professionistiche, ha pubblicato recentemente i dati (ufficiali) delle positività riscontrate durante il 2014 nell’universo sportivo. In testa all’elenco l’atletica leggera, novantacinque casi, poi il baseball, sessantadue, sull’ultimo gradino del podio il sollevamento pesi (ventotto) e, appena (…) quarto, il ciclismo (sedici). Le cifre confermano le politiche delle varie federazioni, sottolineando – in particolar modo in Italia – quanto differisca la realtà dalla percezione della stessa. In effetti l’armamentario generalista sul d****g nel ciclismo esonda nel luogo comune, per merito anche di fenomeni (da baraccone) come Pantanology. L’atletica sta sperimentando sulla propria pelle quel che accadde sei, sette anni fa agli sfregaselle: l’introduzione di un passaporto biologico serio ha scoperchiato il vaso di Pandora. Se tutto ciò mediaticamente è un contraccolpo, la Iaaf è in una profonda crisi finanziaria, il (ri) costruire un presente e un futuro prossimo con atleti credibili e sani non pare più rimandabile. Continuare a premiare i mutanti, che sperimentano trattamenti sempre più sofisticati, sembra essere diventato un privilegio (dubbio) di entità economicamente bulimiche. Dietro le statistiche anoressiche del calcio o del rugby (sette dopati su una campionatura di migliaia di test..) c’è la volontà procteriana di ignorare il fenomeno. O addirittura scavalcarlo con le nuove cure: l’evoluzione del Platelet-Rich Plasma è lo standard nobiliare per calciatori, cestisti, tennisti; in generale l’elite professionistica che sfrutta i buchi neri delle legislazioni correnti. Senza un Passaporto Biologico rigido, il PRP diviene l’ultima frontiera della cosiddetta medicina sportiva, favorita dal silenzio assenso della Wada. Che vigila ma non troppo, preoccupata di un eventuale scontro legale con multinazionali miliardarie (Fifa blu?) che la renderebbe il vaso di terracotta manzoniano in mezzo a quelli di ferro. Il primo studio di chirurgia ortopedica, che allertò sui risvolti dopanti della pratica, è californiano (Stanford University) e risale al Settembre 2010. Il metodo è una variabile sofisticata dell’autoemotrasfusione e stimola alcuni fattori di crescita. Come cantava un’icona britannica: “Sordid details following…”

Parte down under il primo Slam dell’anno e, osservando i tabelloni, emerge un dato preoccupante. Travolto dal Federerismo, da Rafa e Nole, dalle racchette globalizzate, il movimento americano è ai minimi storici. Se nella Wta Serena Williams, al tramonto ma non troppo, può rimandare il discorso (per il settore femminile) un po’ più in là nel tempo, la classifica Atp è desolante. Con l’asterisco di Kevin Anderson, numero sedici, sudafricano che potrebbe diventare statunitense solo per il passaporto, John Isner (al 21) è il capintesta dello sparuto gruppo stelle e strisce. Il resto della comitiva, nei primi cento, è improbabile: Querrey (35), Sock (41) e Young (56). Le considerazioni tecniche, soppesando le qualità dei nominati, sono facili: includendo nella lista anche il deludentissimo Ryan Harrison (160) trattasi di tennisti monodici, potenti ma difensivamente carenti e, soprattutto, atleti al di sotto del pattern richiesto oggi. Eppure, all’incirca vent’anni fa, il circuito era comandato da Sampras, Agassi, Courier, Chang, Martin, etc. E i Roddick, Blake, Fish della generazione scorsa, che non valevano certo Pistol Pete e Andreino, nel 2015 paiono fuori categoria rispetto alla mediocrità di quelli attuali. È evidente che il sistema della accademie private, alla Nick Bollettieri, che all’incipit favorirono i talenti yankee, abbia implementato piano piano il robotennis contemporaneo. Che prevede appunto uno chassis psicofisico costruito sulle qualità atletiche e il lavoro quantitativo; un discorso che ha tagliato fuori il pianeta Ncaa, che propone giocatori troppo vecchi (e poco maturi) per le esigenze odierne. E nelle Academy di oggidì, la maggioranza che le frequenta arriva dall’Europa oppure dall’Oriente. Il tennis negli States sta vivendo una crisi drammatica nel reclutamento, vittima dell’avanzata o del consolidamento di altre discipline. In primis, la base borghese che ne costituiva lo zoccolo duro è stata erosa dalla popolarità crescente del golf e dallo strapotere di football, pallacanestro e baseball. Il calcio scientifico detta legge nella Bible Belt, il basket nelle aree metropolitane, e se l’Nfl è ormai The America’s Game – uno spettacolo che ingloba tutto il paese – l’Nba è diventata territorio privilegiato degli afroamericani e l’Mlb degli ispanici, che stanno pure scoprendo il soccer. Una concorrenza spietata, se includiamo anche l’hockey, e con un immaginario vincente. Allora, se gli Dei non permettono di intercettare i campionissimi, e lo Zio Sam ne ha espressi due degli ultimi tre (McEnroe, Sampras e Federer), catturare i superatleti si trasforma in una missione impossibile. L’Uncle Tony di Orlando, non quello di Manacor che strappò Rafa alla Pallonara, sogna il nipote minotauro tight end dei Dallas Cowboys. Il Novak Djokovic di Brooklyn, prodigioso tiramolla, farebbe la point guard a Syracuse, in attesa della stretta di mano con Adam Silver. Persino lo sci alpino e il ciclismo hanno una enclave, il Colorado, e l’unico esempio che potrebbe essere copiato è quello dell’atletica leggera. Che tornerà dominante, le manifestazioni juniores sono eloquenti, basandosi sul vivaio (e l’eccellenza) dei licei, quindi abbassando l’età della vernice agonistica. Oltre l’importanza storica del tennis americano, ci sarebbe il mercato: quelli che furono i gesti bianchi, malgrado l’espansione verso il Mondo Nuovo, non possono rinunciare all’esposizione mediatica (e ai dollari) USA. Con l’aggravante che due segmenti corposi della stagione, Indian Wells e Miami a Marzo, i tornei estivi che portano ai due Mille nordamericani e allo US Open, rischiano una contrazione nell’interesse (e negli incassi) se – a lungo andare – gli americani continueranno a recitare ruoli da comprimari.

Dalle parti di Limone Piemonte, nella Provincia Granda a un passo dai confini francesi, agisce un’agente del corpo forestale che non passa inosservata. Si chiama Stefania Belmondo e opera, sul campo, a far pronto intervento. La scena, il più delle volte, si risolve con un finale che pare scritto da Flaiano o Marchesi… “Accadono cose molto buffe, spesso mi capita di soccorrere turisti tra le montagne che, passata la paura, mi chiedono l’autografo”. Sono già trascorsi più di quattro lustri da quando, nel dicembre 1989, appena ventenne si impose per la primissima volta nella Coppa del Mondo. Trapulin (non chiamatela così in sua presenza, si arrabbia), una delle più grandi atlete nella storia dello sport italiano, vive la sua vita lavorando, senza presenzialismi e lustrini. Stefania non sembra interessata a un impiego dirigenziale di alto profilo, però – pensando a una campionessa di quel livello – abbiamo idea che la sua figura causerebbe qualche imbarazzo in alcune stanze federali. In fondo (…) le sue dieci medaglie olimpiche, le ventuno prove vinte in Coppa, a pane e acqua, erano l’eccezione in un panorama – quello dei profondi Novanta – nel quale l’epo e l’ormone della crescita erano la regola. Sono dinamiche ormai consolidate, da decenni, nel Bel Paese: il fuoriclasse senza macchia viene visto quasi con fastidio. Ricordiamo le umiliazioni subite da Rivera, Mennea e Panatta o il ruolo marginale di un’icona come Sara Simeoni. Ha del grottesco, ma Silvio Martinello commentatore tecnico Rai (molto bravo nel ruolo) è uno specchio di quel che (non) accade. L’olimpionico di Atlanta 1996, in un mondo normale, dovrebbe essere il presidente della Federciclismo; invece su quello scranno si siede, irremovibile, Renato Di Rocco. Uno che è il ritratto della mediocrità melliflua della nostra politica sportiva. Avevamo ancora i calzoncini corti quando già imperversava, nell’italbasket, a fianco del Faraone Vinci, l’immarcescibile Gianni Petrucci. E potremmo scrivere a lungo sui califfati di Barelli, Binaghi, Rossi, Scarso. Il loop suona indisturbato, mentre i campioni che hanno dato tanto (più che ricevuto) continuano a stare fuori dalle stanze che contano. Presidiate da monarchi incanutiti.

Solo due cose contano: l’amore in tutte le sue forme, con ragazze carine, e la musica di New Orleans o di Duke Ellington. Il resto sarebbe meglio che sparisse perchè è brutto, e la dimostrazione contenuta nelle pagine seguenti deriva tutta la sua forza da un unico fatto: la storia è interamente vera, perché io me la sono inventata da capo a piedi“. (Boris Vian)

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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