Dieter Wiedemann e una fuga d’altri tempi

13 Gennaio 2015 di Simone Basso

Fatali furono il Fauniera, maestoso quanto selvaggio, e la visione del Giro. Ciò che noi italiani consideriamo scontato, consumato, agli occhi esotici di un forestiero si rivela quello che è: uno spettacolo senza pari, che racconta la terra e gli uomini. Sono passati ormai quindici anni, da quando accompagnammo un gruppo di inglesi ad ammirare il rito teosofico del ciclismo; fra loro c’era Herbie Sykes che, per uno strano disegno della vita, sarebbe diventato un giornalista e uno scrittore di storie ciclistiche. The race against the Stasi, il suo quarto libro, ha avuto l’elogio della rubrica letteraria di The Guardian. L’odissea di Dieter Wiedemann, uno dei migliori corridori della Germania Est negli anni Sessanta, sembra il pretesto per una narrazione che ricostruisce la vicenda umana di una famiglia e quella sociale di una nazione. Sykes riprende l’intuizione – felice – del suo lavoro precedente (“Coppi”) e dà la parola – in prima persona – ai protagonisti: la novella diventa così un compendio di pensiero laterale, con le voci delle persone che si rincorrono, quasi sovrapponendosi in un romanzo corale. All’autore ci sono voluti cinque anni di ricerche per stendere il canovaccio, arricchito dai documenti (asettici e glaciali) della Stasi. La fuga avventurosa di Wiedemann dalla DDR, per ricrearsi un’esistenza con una ragazza dell’Ovest, Sylvia, è lo snodo centrale di una dissoluzione. Dei rapporti di Dieter coi familiari, che rimasero dall’altra parte del Muro, e di un’utopia socialista che affondò nella paranoia e nella mediocrità. E la fotografia di un’epopea, della Corsa della Pace che fu – culturalmente – l’evento popolare più importante dell’Europa orientale. The race against Stasi è un documento prezioso che non invecchierà, perchè figlio di uno sguardo che non si accontenta del luogo comune e della superficie delle cose. Un modus operandi che manca a troppa letteratura sportiva di oggidì, incagliata sull’enfasi o lo scandalo, la sagra della fiction; priva, soprattutto nel Bel Paese, di un panorama, di un paesaggio interiore che elevi quello esteriore. Consigliatissimo (www.aurumpress.co.uk).

Lo scrivemmo eoni fa, amarcord. Torino nel 1993 non era invasa dalle flotte di turisti, che oggi fanno le vasche nel quadrilatero, piuttosto assomigliava a Detroit. L’arrivo di due pullman in Piazza Castello si fece notare: da una parte greci, dall’altra turchi, che riannodarono i fili di una fratellanza secolare attendendo la finale della Coppa d’Europa. In sintesi, botte da orbi. In Via Roma, un’apparizione, incrociammo Roy: ci chiese divertito perchè indossassimo quel curioso cappello (eravamo Alpini…). Palesemente alticcio, con una bottiglia di birra in mano (alle dieci e mezzo del mattino), conversammo amabilmente per una decina di minuti. La sera, al palasport di Parco Ruffini, in una bolgia, l’Aris battè l’Efes Pilsen in una partita talmente brutta esteticamente che avrebbe fatto vergognare Naismith in persona. Il newyorchese, imperturbabile, scrisse 19 punti e 18 rimbalzi e guidò i gialloneri alla vittoria. Presumiamo però che, più che i giochi a due col fiorentino Gei Gei Anderson, quella volta sia stato decisivo l’Alka-Seltzer.

L’umanità, per propria natura, tende a darsi una spiegazione del mondo, nel quale è nata. E questa è la sua distinzione dalle altre specie. Ogni individuo, pure il meno intelligente e l’infimo dei paria, fin da bambino si dà una qualche spiegazione del mondo. E in quella si adatta a vivere. E senza di quella, cadrebbe nella pazzia“. (Elsa Morante)

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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