Quando c’era il tennis, quando c’era Rino Tommasi

3 Dicembre 2014 di Stefano Olivari

Siamo cresciuti sognando di vivere alla Rino Tommasi, non riusciamo a capacitarci del fatto che uno come lui abbia lasciato relativamente pochi libri (quelli statistici non valgono, a maggior ragione nel 2014) ai posteri avendo così tanto da raccontare in prima persona. Per questo abbiamo acquistato solo sulla base del nome Quando c’era il tennis, libro di Tommasi e Adriano Aiello di cui non avevamo mai sentito parlare e che abbiamo scoperto sul web, eBook editato qualche mese fa dal Corriere della Sera fra una svendita di immobili e l’altra. Con Tommasi soltanto nella veste di intervistato e fin qui va bene: tanti libri-intervista si sono rivelati interessanti, addirittura anche uno di Alain Elkann (merito di Moravia, chiaramente) . Magari più lunghi di questo, che stampato in un formato medio non dovrebbe andare di molto oltre le 20 (venti) pagine. Praticamente un articolo di Indiscreto di quelli strong… Ma diciamo anche che i libri non si valutano al chilo o al byte e passiamo oltre. Anche oltre l’introduzione di Aiello, un dimenticabile ricordo di un suo pomeriggio di bambino trascorso aspettando la finale di Wimbledon 1987 fra Pat Cash e Ivan Lendl, unito a una tirata contro Lendl e Bruguera (poteva sempre guardare Cremonese-Pergocrema, chi lo ha costretto a infliggersi tanto tennis?). La prima persona di Agassi o di Tommasi interessa, quella di un giornalista normale viene tollerata a fatica da parenti e amici.

E veniamo alle domande, quasi tutte ‘aperte’ in modo da permettere all’ottantenne fuoriclasse di spaziare, ma anche con temi già trattati nell’eccezionale Trent’anni a bordo ring e nel buonissimo Da Kinshasa a Las Vegas via Wimbledon. Forse ho visto troppo sport. Tommasi è bravo nel non mitizzare il passato, anzi, ripercorrendo in breve la sua carriera e quella dei grandi del tennis con la ben conosciuta predilezione per Stefan Edberg. Interessante la parte in cui ammette di non divertirsi più guardando i tennisti di oggi, fenomeni costretti dalla convenienza statistica, dalle racchette e della superfici uniformate a tirare mazzate da fondocampo e poco altro, ma di non dirlo perché gli sembrerebbe di tradire uno sport che gli ha dato tanto. Tutto il resto ha l’asterisco del già sentito dai tommasiani osservanti e da quelli light: il match più bello di sempre (Laver-Rosewall, finale WCT Dallas 1972), la vera impresa di Agassi (crescere tutto sommato normale a Las Vegas e con un padre come il suo), i dubbi sul fisico della Navratilova, lo scetticismo su Federer più grande di sempre (non lo è stato nemmeno nella sua epoca, visto il suo record con Nadal), il rapporto con Gianni Clerici, le prospettive di Quinzi.

Le bordate Tommasi le riserva a Sky (“Ho una bassissima considerazione di loro, non hanno studiato abbastanza”, riferendosi ai dirigenti e forse non soltanto a loro), mentre quasi in chiusura ammette di essere stato generazionalmente fortunato, avendo attraversato lo sport in un’epoca in cui i giornali mandavano i giornalisti in giro a cercare notizie o anche soltanto a fare cronaca, invece che rimasticare cose di altri o proprie ma viste attraverso uno schermo, con la stessa prospettiva di telespettatori e lettori. Purtroppo il racconto di Tommasi finisce qui, perché poi partono considerazioni finali di Aiello che in un libro così breve davvero sono di troppo. Insomma, una grande occasione persa e non certo per la brevità del testo (prezzo 1,99 euro), che di base non sarebbe un difetto e anzi avrebbe dovuto indurre a concentrarsi sui temi che attualmente Tommasi ‘sente’ di più: giornalismo, politica sportiva (da ricordare che negli anni Sessanta è stato il re degli organizzatori di boxe, gestendo anche parte della carriera di Benvenuti), confronti fra discipline diverse.

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