La strada di Drazen Petrovic

27 Novembre 2014 di Stefano Olivari

I San Antonio Spurs, con 9 ‘international players’ nella rosa, hanno tracciato la strada e in tanti la stanno percorrendo seguendo una tendenza irreversibile. I 101 giocatori stranieri con cui la NBA ha iniziato questa stagione (già calati di qualche unità, qualcuno è a cavallo fra lo sventolio dell’asciugamano e la D-League), sono infatti record assoluto ed è per questo che hanno fatto notizia in ognuno dei 37 paesi, Svizzera compresa, con in campo o più spesso in panchina qualcuno dei ‘nostri’. Ma al di là dei numeri, visto che il totale dei giocatori sotto contratto della lega è di 450 (quindi gli stranieri sono il 22,4%), nella internazionalizzazione della NBA è impossibile scindere gli aspetti sportivi da quelli commerciali. In altre parole: almeno metà dei 101 giocatori in questione non avrebbero un contratto NBA, se fossero di passaporto statunitense. Mentre buona parte di quelli meritevoli ha una formazione cestistica americana, o per lo meno è andata negli USA da promessa in costruzione.

Al netto di tutte queste considerazioni rimane il fatto che a inizio anni Novanta gli stranieri della NBA (all’epoca a 27 squadre, adesso sono 30) fossero una ventina e facessero quasi tutti fatica ad affermarsi. La stella delle stelle del basket europeo, cioè Drazen Petrovic, era arrivato nel 1989 a Portland accolto con freddezza da una squadra da titolo (infatti sarebbe arrivata in finale, con lui a giocare qualche minuto) e solo in un ambiente con meno pressione come quello dei Nets sarebbe riuscito ad affermarsi fino ad essere inserito nel terzo quintetto NBA, poco prima della morte a nemmeno 29 anni. Proprio nel 1989 avevano fatto il loro ingresso nella NBA anche Divac e Marciulonis (oltre a Volkov) che insieme al mito croato avrebbero cambiato per sempre la percezione del giocatore non americano presso pubblico ed addetti ai lavori. A dirla tutta, se Sabonis non si fosse giocato la carta NBA solo nel 1995, a 31 anni e con le gambe di un quarantenne a causa di infortuni e operazioni, adesso staremmo parlando del più grande di sempre o giù di lì. NBA compresa.

Tuttora comunque resistono alcuni luoghi comuni, tipo quello sulla difesa o dell’essere troppo soft, insieme a più concreti problemi razziali: soprattutto in contesti perdenti (quindi metà della NBA, quella che per ricostruire la squadra spera di non andare ai playoff), dove i giocatori pensano principalmente alle proprie statistiche, il giocatore straniero (che non sempre è bianco, ma spesso parla un’altra lingua cestistica) la palla la vede molto poco. Il fatto che l’80% dei giocatori sia nero e il 90% del pubblico bianco rimane infatti un problema, a cui gli international players possono dare una soluzione solo parziale. Certo è che appena al di sotto del livello dei fenomeni, la differenza fra un diciannovenne americano e uno straniero è inferiore rispetto a quella anche solo di 10 anni fa. Una brutta notizia per l’Europa, almeno per quella che non accetta di essere una sorta di lega di sviluppo.

(pubblicato sul Giornale del Popolo di mercoledì 26 novembre 2014)

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