Scandalo del Number One, lo schema di sempre

20 Novembre 2014 di Enrica Panzeri

Fin dai tempi di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida e del loro presunto coinvolgimento negli interrogatori a Villa Triste prima del tragico epilogo, la congiunzione fra droghe e mondo dello spettacolo ha sempre costituito l’ordito su cui tessere storie da sussurrarsi a voce fioca. Da allora vari scandali hanno costellato la cronaca, in un rosa spesso virato al nero: dal caso Montesi, utilizzato come un maglio per demolire il ministro Piccioni, sfruttandone il coinvolgimento marginale del figlio, alla lesta fuga di Maradona dall’Italia, fino all’arresto di Laura Antonelli, questi ultimi avvenuti in prossimità del terremoto Tangentopoli.

All’inizio degli anni Settanta, in concomitanza con un periodo fondamentale e sanguinoso per la recente storia italiana, complice la transizione dei costumi giovanile, si assistette a una recrudescenza di queste vicende. In una manciata di mesi si susseguirono gli arresti di Walter Chiari e Lelio Luttazzi e la detenzione con l’accusa di possesso di sostanze stupefacenti di Pierre Clementi, il quale, sui giorni trascorsi in prigione, scriverà un libro autobiografico, Quelques messages personnels. Furono però le tragiche vicende della “Casa degli Angeli”, culminate nella morte di Carol Lobravico, all’epoca moglie di William Berger, quelle che maggiormente ebbero a personificare il coacervo di furiose paure verso l’argomento droga e sapiente uso di personaggi famosi da sacrificare alle folle come “armi di distrazione di massa”.

Il ricordo di queste ultime due vicende in Italia è ormai materiale per archeologi dello spettacolo, come accade spesso per gli errori giudiziari che tentano di mimetizzarsi nell’oblio. Relativamente a Walter Chiari, rimasto in prigione più di tre mesi, tanto da sapere della nascita dell’unico figlio attraverso le sbarre, Tatti Sanguineti, che per lui curò il documentario “Storia di un altro italiano”, accusò apertamente il mondo politico, reo di aver manovrato la vicenda per sviare l’attenzione dal primo processo per Piazza Fontana e dalle prime ipotesi sulla creazione di una “strategia della tensione”. La sintesi perfetta delle varie anomalie che scandirono la trafila giudiziaria del celebre uomo di spettacolo si ritrova nelle parole pronunciate all’epoca dall’avvocato Roberto Ruggiero, celebre penalista del Foro romano:“ Nelle aule del nuovo palazzo di giustizia non c’è più scritto che la legge è uguale per tutti. Ma nessuno ha ancora inserito nel codice penale l’aggravante Walter Chiari”.

Ma ancora più clamoroso fu l’errore giudiziario commesso ai danni di Lelio Luttazzi, che al contrario di altri accusati con quel mondo non c’entrava minimamente. Il musicista fu coinvolto nella vicenda proprio per colpa di Walter Chiari, che gli chiese di fare una telefonata per suo conto, a un personaggio poi risultato essere uno spacciatore, asserendo che da dove si trovava non riusciva a prendere la linea (per chiamare Luttazzi invece la linea funzionava…). In realtà l’attore era soltanto un consumatore, mentre Luttazzi era all’oscuro di tutto e pensava davvero che Chiari volesse avvertire dell’impossibilità di mettersi in contatto con questo personaggio. Fatto sta che pagò questa sua fiducia in uno che credeva amico con 27 giorni di carcere, prima di essere completamente scagionato. La sua vita e la sua carriera subirono però lo stesso un danno enorme, anche se poi Luttazzi avrebbe di nuovo condotto Hit Parade alla radio e collaborato a molte trasmissioni televisive, prima di dedicarsi soltanto alla musica (in particolare jazz) e di ritirarsi nella sua Trieste insieme alla moglie Rossana. Ma sempre con il dolore di essere ricordato anche per quell’arresto, con il suo nome associato a delinquenti e a chi come minimo se l’era andata a cercare.

Fu in questa atmosfera che maturò lo “Scandalo del Number One”. Ponendo oggi a confronto le vicissitudini legate al locale romano con alcune inchieste di anni successivi, spiccano alcuni punti di contatto che paiono emergere come i disegni dei Maya, visibili solo a una certa distanza. L’accatastarsi di testimoni celebri, fra i quali è impossibile distinguere eventuali responsabilità, o le soffiate mirate alla stampa che rovinano intenzionalmente i programmi degli inquirenti, sono elementi di un copione destinato sistematicamente a ripetersi.

Alla fine degli anni Sessanta la Dolce Vita romana sperimentava gli esordi delle prime discoteche e night-club a imitazione dei modelli esteri. Gli italiani, una volta scoperto il turismo all’estero, tornati in patria desideravano ritrovare in patria ciò che, fino a poco prima, potevano gustare solo oltrepassando la frontiera. Nel solito intreccio fra ingegnosità e illegalità, questi locali aggiravano i limiti imposti dalla legge con intuizioni creative. Il Number One, nei primi anni Settanta il night più in voga di Roma, per i meri documenti contabili risultava essere un ristorante vegetariano. Gestito da Paolo Vassallo, imprenditore e playboy, era divenuto ritrovo di molti esponenti del “bel mondo” romano e meta delle sortite di stelle del cinema e della canzone straniere. Vassallo era conscio della guerra combattuta sottotraccia dalla malavita per simili locali, destinati sovente a ripetere la parabola delle comete. Splendevano qualche mese per poi spegnersi, spesso vittime di vendette incrociate: non erano infrequenti gli incendi dolosi appiccati da ignoti o le risse provocate ad arte per causare la serrata dei locali.

Fu un cliente abituale a far deflagrale lo scandalo: il produttore cinematografico Pier Luigi Torri, il quale, dopo il rinvenimento di una bustina di coca nella macchina di Vassallo, rivelò di un giro di droga fra le pareti del night. Fu semplice catalizzare l’attenzione di un’Italia ansiosa di ripetersi quanto fosse dissoluto e licenzioso il mondo dello spettacolo. Un’Italia che attendeva solo di fornirsi un alibi per ignorare quanto la quotidianità, fino a poco prima considerata sicura, stesse in quei momenti sgretolandosi. I volti noti, adusi ad apparire sulle pagine dei periodici e alle feste nelle ville romane, si rivelarono essere in gran numero. E sfilarono tutti, come sotto a moderne Forche Caudine, davanti alla folla di fotografi e di curiosi, che ignoravano l’aula accanto dove Franco Valpreda si trovava alla sbarra accusato per la strage di Piazza Fontana. Mentre i giudici e gli avvocati discutevano della bomba che devastò la Banca dell’Agricoltura a Milano, uccidendo diciassette persone e l’ingenuità dell’Italia del boom economico, i numerosi curiosi osservavano ai testimoni di un processo che si avviava a divenire una pantomima.

Sfilarono tanti volti celebri dell’epoca, attori, fotomodelle, nobili e playboy, in una bizzarra e involontaria parodia del finale di Otto e ½. Ma non venne avvistato nessuno di quelli che usavano la droga come fonte di profitto e non di sballo. Secondo uno spartito destinato a essere nuovamente suonato per altre inchieste, Tangentopoli e Calciopoli fra le tante, qualcuno fece giungere delle indiscrezioni ai giornali, distruggendo così la tela pazientemente tessuta degli inquirenti, fra i quali spiccava il nome di un giovanissimo Domenico Sica.

Lo scandalo del Number One si disperse dunque in molteplici rivoli. Alcuni boccacceschi, fra modelle che accusavano Torri di anormali pratiche sessuali o finte poliziotte infiltrate, altri drammatici. Si svelarono infatti una serie di filamenti intrecciati al suicidio di Bino Cicogna, in Brasile, invischiato in affari fallimentari con alcuni frequentatori del locale, alla morte di un aviere, Maurizio Carafa, forse per una vendetta di alcuni spacciatori, all’incidente che, durante un safari costò la vita a Dante Baldari, amico di Dino Calzolari il cui coinvolgimento in Piazza Fontana era al vaglio degli inquirenti in quei giorni, a Talitha Pol, l’affascinante e sfortunata moglie di Paul Getty il cui decesso, pochi mesi prima, era stato inizialmente ascritto ai sonniferi e in seguito addebitato a un’overdose di eroina. Fino al doppio omicidio di Giuliano Carabei e della modella inglese Tiffany, assassinati nel dicembre del 1971 sulle sponde del Lago Martignano, vittime di un’esecuzione dai contorni oscuri. I sospetti si orientarono verso il mondo dello spaccio e sul giro che trasformava i piccoli consumatori in pusher, esponendoli a pericoli letali in caso fossero giunti a conoscenza di più di quanto fosse dovuto. Le ricerche non svelarono un colpevole e il delitto risulta a oggi ancora insoluto.

Nato per solleticare i pruriti della gente, lo scandalo si rivelò un vaso di Pandora, da cui filtrarono i peggiori incubi che avrebbero flagellato presto la società: i primi vagiti di coloro che avrebbero formato la Banda della Magliana, i primi traffici di droga in grande stile, il coinvolgimento della criminalità organizzata. E i nomi veramente importanti dei consumatori. Quelli mai apparsi nell’aula di Tribunale.

Pino Bianco, giornalista di Paese sera e autore di Droga di Classe, un pamphlet dedicato a queste vicende, ne svelò le identità, ipotizzando che la droga non fosse soltanto materia di consumo, ma corollario di altri reati: l’evasione di soldi all’estero, l’usura, i ricatti destinati a condizionare gli orientamenti politici ed economici della nazione. Elencò i nomi di Guido Carli, Gianni Agnelli, Sandro Perrone (editore all’epoca del Messaggero e del Secolo XIX). Nomi che non comparvero in nessuna pagina dell’inchiesta, conclusasi quasi senza condanne.  Rileggendolo oggi si avverte una vaga sensazione di rammarico per un’occasione mancata che, se perseguita, avrebbe potuto indirizzare diversamente la lotta contro le sostanze stupefacenti e il mondo criminale a esse legato. A conclusione, come un tragico epitaffio per altri misteri italiani, rimangono le parole finali del libro di Bianco:“Gente che non esita a uccidere per non correre rischi, è anche certa di non finire mai sul banco degli imputati in un’aula di tribunale. Il loro vantaggio, e di quelli come loro, è in questo semplice e gravissimo fatto. Sono i più forti”.

Enrica Panzeri, in esclusiva per Indiscreto

– Fonti:
“Droga di classe” – Pino Bianco
“Gente” febbraio/marzo 1972
“Oggi” febbraio/marzo 1972
“La Stampa” (archivio)

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