Addio al linguaggio, ma non alla fighetta imbronciata

26 Novembre 2014 di Stefano Olivari

Jean-Luc Godard è uno dei pochi registi per cui l’appellativo di genio non è abusato, ma pur mettendo in discussione tutto nemmeno lui è riuscito a distruggere l’architrave del cinema francese, che si potrebbe sintetizzare con l’espressione ‘Fighetta imbronciata che rende pesante la vita sua e degli altri’. Nemmeno con il suo Adieu au langage, presentato a Cannes e da pochi giorni nei cinema italiani, Godard è riuscito nell’impresa, ma questo non toglie che il film abbia una forza notevole e una certa capacità di spiazzare lo spettatore, costringendolo a navigare fra citazioni più o meno colte, salti di inquadratura e di audio, inserti narrativi nello stile dei Blob e dei Fuori Orario d’epoca.

Parlare di trama è esagerato, ma comunque ci sono una donna sposata (Heloise Godet) e il suo amante, fra seghe mentali (e non solo mentali), discorsi smozzicati sui massimi sistemi, pessimismo cosmico, addirittura panni messi in lavatrice. Lei che gira nuda per casa a simboleggiare forse il contrasto fra libertà e abitudine, ovviamente molto più pallosa di lui che sulla tazza del cesso caga (non gli si può dare torto). Il tutto davanti alla donna, che non si scompone presa com’è dai suoi pensieri. Poi c’è anche un cane randagio (Roxy, che nella vita reale è il cane di Godard), che prima vaga per i boschi e poi si inserisce nelle loro vite senza cambiarle: non c’è scambio, ma solo osservazione. Il vero protagonista del film, è chiaro, è proprio Roxy-Godard. Si susseguono le stagioni, più o meno con le stesse parole dette e ascoltate, mentre il mondo viene sconvolto dalla Storia con la esse maiuscola. Si cercando correlazioni, come fra l’invenzione del televisore e l’ascesa di Hitler, ma con il sospetto che tutto sia già stato detto.

I fiumi di parole non sono quelli dei Jalisse, ma tutta la cultura del Novecento che ha portato ad una impossibilità di comprensione del senso. Lo stesso girare in 3D un film che non è certo Godzilla rientra in questo discorso: troppe parole, troppa tecnica, senza realmente avere qualcosa da comunicare (Viene in mente un Jovanotti d’annata: “Cos’ho da comunicare io? Ma è ovvio: la comunicazione!”). La francese imbronciata regala frasi memorabili, come “Je suis ici pour dire… non”, evita di sorridere anche solo  per sbaglio, è stanca di se stessa ma anche dei personaggi dei film in televisione, proprio per il loro essere personaggi. Quando finalmente l’amante si libera di lei, Godard gli fa dire un memorabile e liberatorio “Sorridi, quando esci”. Il resto è destrutturazione pura, dalle voci fuori campo che impartiscono lezioni-Bignami di storia all’audio troncato tipo titoli finali dei Bellissimi di Retequattro, dalla divisione in due parti (natura e metafora, quasi evocando Malick) che poi due non sono ai riferimenti cinefili-cinofili.

Flash sull’Africa come concetto, uguaglianza uomo-donna, omicidio come risposta alla disoccupazione, potere del web, sesso, morte, mancavano giusto l’esonero di Mazzarri e il buco nell’ozono. Il tutto in un’ora e pochi minuti di film che non annoia, da vedere e rivedere. All’inizio e alla fine La caccia alle streghe di Alfredo Bandelli, oggi meno nota della Contessa di Pietrangeli ma di sicuro una delle canzoni simbolo del Sessantotto italiano e associabile a Lotta Continua. Ma se Gad Lerner pensa adesso a combattere le zanzare del Monferrato e Mughini a difendere Moggi, anche Godard deve avere il diritto di giocare con sé stesso, il suo passato-presente marxista e con i critici ex sessantottini o, peggio ancora, giovani vecchi. Come al solito il confine fra capolavoro e fantozziana cagata pazzesca è sottilissimo. Di sicuro Adieu au langage non è un addio alla vita del pur 84enne maestro, ma soltanto alle sue sovrastrutture. Qui dalla periferia siamo comunque arrivati alla stessa sua conclusione: meglio gli animali.

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