Tour de France, il padrone di tutto

21 Ottobre 2014 di Simone Basso

Domani, mercoledì 22 Ottobre, presentazione in pompa magna della centoduesima edizione del Tour de France. Potremmo anticiparvi alcuni passaggi del tracciato – che partirà dai Paesi Baschi, Utrecht, e arriverà sul Muro di Huy e a L’Alpe d’Huez – ma è un giochino che non ci ha mai appassionato. Molto più interessante invece imbastire un discorso sulla creatura di Henri Desgrange (e di Géo Lefèvre) e il suo sviluppo (ipertrofico) nel mondo del ciclismo e dello sport. In fondo, leggere la storia della Festa di Luglio significa spiegare la Francia e un bel pezzo di Europa.

Semplificando il discorso, il Tour ha vissuto tre grandi epoche. Quella pionieristica e mitologica, prima di Desgrange e poi di Jacques Goddet, seguita dalla trasformazione – industriale e culturale – dell’evo nel quale Levitan affiancò Goddet; infine – al termine di una rincorsa durata settant’anni – la mondializzazione, gestita con dinamiche e progetti quasi opposti da Leblanc e Prudhomme. Ripercorrendo l’odissea che ha portato un’avventura sportiva, nata davanti a un Caffè (Au Reveil Matin), ad assumere le proporzioni di un blockbuster spicca la figura – tosta, bipolare – di Felix Levitan. Ovvero colui che accelerò la commercializzazione dell’evento e che comprese la necessità di aprirsi al futuro. In soldoni, la vera globalizzazione della bici – che, su strada, prima degli Ottanta era un Sette Nazioni – cominciò con le sue idee. Tantissime, talvolta eccessive, in alcuni casi iconiche: dalla maglia a pois all’epilogo ai Campi Elisi fino ai percorsi massacranti, quasi sadici nei confronti della forza lavoro (i ciclisti).

Ironico che il boom economico dei Novanta arrivasse dopo la defenestrazione dello stesso Levitan: Jean Marie Leblanc, il successore, accompagnò il Tour nel periodo più controverso di sempre, caratterizzato da forze centripete, opposte, che rischiarono di fracassare il giocattolo. Il successo incredibile di alcune annate (pensiamo al 1992 o al 1997) mise l’Amaury – la società che gestisce la Grande Boucle (e altro…) – di fronte a una sorta di crisi bulimica. Riverberata dalla deflagrazione di Epolandia, Leblanc tentò di salvare la baracca affiancandosi, politicamente, ai verbruggeniani. Che provarono da ultimo – negli anni Zero di Darth Vader – ad assaltare il castello più ricco del reame, svalutandolo a suon di scandali telefonati. Come si sia conclusa la battaglia, oggi nel 2014, ci pare evidente: quel tipo di Uci, messa all’angolo dal nuovo patron Christian Prudhomme, non esiste più. E la Grande Boucle è (ri) diventata l’elemento centrale, il sole, del sistema ciclismo.

Mescolando in maniera spregiudicata tradizione e modernità, buon senso e affari, il Tour – un avvenimento annuale – incarna nel Vecchio Continente, ancor più che Wimbledon nel tennis, lo chassis perfetto dello sport professionistico. ASO coordina, organicamente, tutti i mezzi a disposizione: basterebbe sfogliare L’Equipe e i paragoni con la Gazzetta e il mondo RCS diventerebbero impietosi. La linea editoriale l’Amaury non se la farebbe imporre da un avvocato pallonaro. Prudhomme e soci investono su un immaginario potentissimo, epico, e lo collegano alla realtà francese ed europea: un veicolo formidabile, non solamente una macchina da soldi, che esplora compiutamente il potenziale del ciclismo.

Con la Federazione di Cookson che è tornata a una funzione meno inquietante, ASO per impatto e leadership assomiglia a una realtà americana (anche se, naturalmente, senza il business complessivo creato da una NBA). Un’organizzazione con aspetti ancora militareschi (sono anche quelli della Dakar…) che ha piano piano fagocitato il resto dell’offerta. Appartengono al Tour la Parigi-Roubaix, la Freccia Vallone e la Liegi-Bastogne-Liegi. La Parigi-Nizza, il Criterium Internazionale, il Dauphiné e la Parigi-Tours. Qualche gara di cartello del calendario donne e il Tour de l’Avenir, una perla, l’unica delle tre superclassiche dell’era amatoriale ad essere sopravvissuta. E si guarda oltre, verso nuovi mercati per sondare le possibilità di sviluppo che concedono: l’Arctic Race of Norway, il Tour del Qatar e quello dell’Oman.

Con l’annessione della Vuelta – rilanciata con un can can mediatico che ne copre i vuoti di sceneggiatura – il controllo del pacchetto ciclismo è quasi completo. Tutto ciò dovrebbe far riflettere il circo pro, quelle entità rimaste al di fuori di Amaury. Ci sarebbe bisogno degli stati generali degli stessi, per rilanciare una dimensione più umana, che non rincorra – inutilmente – il gigantismo altrui. La sfida si giocherebbe sull’innovazione e la fantasia, la valorizzazione della bici come stile di vita (territorio, turismo, tecnologia) e l’implementazione del pianeta donne. Non sulle possibilità economiche e la forza del marchio: perchè la gara, in quel caso, è già stata persa in partenza.

(in esclusiva per Indiscreto)

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