Non scommettiamo sul tennis italiano

15 Ottobre 2014 di Stefano Olivari

Potito Starace, esempio scelto a caso fra i tanti tennisti italiani citati nell’inchiesta della procura di Cremona sulle scommesse (non più calcioscommesse, ormai, speriamo solo che non prenda una deriva alla De Magistris), è attualmente numero 150 del mondo ATP e nel 2014 ha guadagnato nei tornei circa 87mila dollari lordi (3.1781.000 in carriera). Le sue sponsorizzazioni non sono esattamente quelli di Federer e gli anni sono ormai 33. Questa è la fascia di giocatori in cui la tentazione di scommettere su una propria partita (che Starace l’abbia fatto è tutto da dimostrare, però) è fortissima, anche senza taroccarne l’esito generale. Per questo non è nemmeno necessaria la connivenza dell’avversario, molte volte, se la logica è soltanto quella di ‘assicurare’ una sconfitta, magari rimanendo al di sotto di un tot di game. Si guadagnerebbe senz’altro di più che vincendo i tornei a cui tutti gli Starace di questo mondo partecipano, spesso challenger con montepremi risibili, giocati davanti poche persone annoiate e organizzati solo perché un’azienda locale ha soldi da far girare.

Esempio concreto: in agosto Starace ha giocato un ottimo torneo challenger a Cordenons (Pordenone), battendo Volandri, Lorenzi e arrendendosi in finale a Montanes. Tutto questo gli è valso 3.600 euro, in questo caso abbastanza veri visto che Cordenons ha la magica lettera H (che sta per hospitality: in pratica per questi professionisti pagare o no l’albergo fa tutta la differenza del mondo). Cifre che facciamo per capire quale impatto possano avere offerte di 50mila euro a partita degli amici di Singapore, sulle persone oneste (quale Starace è, fino a prova contraria) e a maggior ragione su quelle disoneste. Su vari giornali sono pubblicate le conversazioni fra Daniele Bracciali e Manlio Bruni, in pratica il commercialista del clan dei bolognesi di cui faceva parte anche Beppe Signori (la sua migliore scommessa rimane quella sul numero di Buondì ingoiati), mettendo insieme tutto ci sembra che l’unico tennista maschio dei tempi moderni a non essere citato nemmeno alla lontana sia Fabio Fognini.

Da scommettitori e appassionati (anche di tennis…), potremmo tranquillamente elencare duemila partite dall’andamento sospetto, quasi da esibizione, non di italiani ma da parte di gente che 50mila dollari li usa come stipendio per il giardiniere, per parafrasare una memorabile battuta di Gianni Clerici. Dimostrarlo è però un’altra cosa. E l’importanza della cifra a volte è relativa, nonostante ci sia chi teorizza che i ricchi non rubino (quei pochi che non lo fanno si comportano così perché il lavoro sporco l’hanno fatto il padre o il nonno). In un memorabile capitolo de ‘Il Teppista’ (automarchetta, il libro è andato quasi esaurito e non abbiamo intenzione di ristamparlo), il nostro Giorgio Specchia parla della storia vera di un supercampione, di quelli conosciuti anche da nostra nonna, che faceva parte di un clan non dissimile da quello dei bolognesi. Solo che aveva base a Milano e adepti di varie nazionalità. Con gli addetti ai lavori dell’epoca che sapevano e magari ci guadagnavano anche.

Questo per dire che da un lato tutto deve essere dimostrato, anche se l’Italia detiene il primato del primo tennista squalificato per scommesse (Alessio Di Mauro), mentre dall’altro non ci si deve stupire di niente. Su tutto poi vale il discorso che, così come il doping, le partite taroccate vengono trovate soltanto nei paesi in cui le si cerca.

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