La livella di Totò

1 Agosto 2014 di Paolo Morati

Totò

’A morte ‘o ssaje ched”e?…è una livella…”. Da sempre siamo appassionati di Totò, dei suoi film così come della sua vita e arte in generale. Troviamo la sua comicità il perfetto esempio di chi è bravo a far ridere (e sorridere) e non di chi ride (e sorride) perché pensa di essere bravo. E la sua drammaticità, il suo volto tragico che di tanto in tanto è emerso sul palcoscenico, più vero di tante maschere di sofferenza pirotecnica artificiale. Di Antonio De Curtis si è detto di tutto e di più nel corso della sua vita e ancor ulteriormente dopo la sua scomparsa, con rivalutazioni in zona Cesarini e a tempo scaduto, e la riproposizione dei film periodicamente a futura memoria.

Certo non tutti dei capolavori patinati, ma tutti contenenti anche solo cinque minuti di grande maestria recitativa davanti ai quali i comici (e attori) odierni dovrebbero genuflettersi, tra un doppio senso e l’altro. Non che Totò non li usasse, ma era discreto, cortese, al massimo allusivo, mai volgare. Frasi celebri come “La serva serve… La donna è mobile e io mi sento mobiliere… Noi ti accoglieremo nel seno della nostra famiglia e tu accoglici sul tuo”, i suoi sguardi ‘da spogliatoio’ a quei venerati attributi femminili, che oggi nell’era della ricerca dell’assoluta perfezione lo stanno facendo probabilmente rivoltare nella tomba. Un mondo dove Totò era principe del palcoscenico, laddove nella realtà Antonio (figlio illegittimo del marchese De Curtis) era stato dichiarato principe vero, dopo una battaglia e rincorsa araldica.

Di Totò la maggior parte del pubblico ignora però la storia di povertà e sacrifici, la sua carriera teatrale, la rivista, ricordando solo quella cinematografica che ha avuto un’esplosione dai suoi 50 anni in poi. Ma perché poi oggi abbiamo deciso di parlare di Totò? Perché, se prossimamente pensiamo di trattare dei suoi film, ogni tanto ci piace riflettere su come l’importanza che ci diamo (e ci viene data) finisce per non avere alcun valore alla fine dell’esistenza. Che ci chiamiamo Antonio Caponi, Giuseppe La Paglia o Torquato Pezzella, affrontiamo dunque la vita con buon umore, prendiamoci meno sul serio e non rassegniamoci alle intemperie della vita. C’è sempre un Ferdinando Esposito che sta peggio di noi e un Ottone Degli Ulivi che non si arrende a scendere dal piedistallo. Perché come Antonio De Curtis scrisse nella splendida ‘A livella: “Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie… appartenimmo à morte!”.

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