La terza vita di Davide Cassani

9 Marzo 2014 di Igor Vazzaz

L’idea di incontrare Davide Cassani per un’intervista rischia di mettere in crisi chi si debba cimentare con il personaggio: non perché si tratti di persona poco educata, tutt’altro, ma perché la molteplice carriera d’uno sportivo a tutto tondo come l’ex corridore faentino meriterebbe un libro, un approfondimento, qualcosa di ben più esteso rispetto a un articolo cui i tempi pneumatici della cronaca impongono la dittatura del corto respiro. Buon corridore (sin troppo severo con sé stesso, per come rimarca il non aver vinto niente), ottimo gregario, grande capitano in corsa, detto Il Commissario dal “gruppo” per la sua conoscenza, già ai tempi della pedivella, di tutti i colleghi, compagni e avversari, qualità che ha visto in lui, prima in coppia con l’indimenticabile Adriano De Zan poi con l’assai meno charmant Auro Bulbarelli e l’ordinato Francesco Pancani, uno dei migliori commentatori tecnici di tutto lo sport televisivo italiano. Adesso, una nuova svolta nella carriera: succede a Paolo Bettini nel ruolo di commissario tecnico della nazionale azzurra di ciclismo, incarico che il romagnolo potrebbe interpretare, a detta di molti ed è anche il nostro auspicio, per lungo tempo. Grande “lettore” delle dinamiche in corsa, in grado di unire la competenza statistica al calore del racconto, ingrediente irrinunciabile per lo sport umano, troppo umano per eccellenza, il più faticoso, il più popolare, il più bello e, al contempo, ingrato, incontriamo Cassani a margine del primo raduno azzurro, svolto in terra di Versilia, in occasione del Gran Premio di Camaiore, storica corsa disputata giovedì 6 marzo. Approfittiamo, dunque, della preziosa opportunità per parlare di ciclismo con uno dei suoi più importanti interpreti e conoscitori.

Come sono andati questi giorni di incontro e preparazione? Si è respirato un clima collegiale…
Ho voluto presentarmi in qualità di commissario tecnico. Anche se tutti i corridori mi conoscevano, del resto sono “cresciuti” con la mia voce, mi sembrava importante poter illustrare al gruppo la mia idea di nazionale, il mio progetto in vista del mondiale di Ponferrada. È qualcosa di molto importante, per me: ho partecipato a nove mondiali, sono stato un gregario e ho cercato di “rubare” quello che ho imparato dal mio maestro, Alfredo Martini, e dalla pratica pluriennale. Nelle corse è molto importante l’esperienza, l’abitudine a confrontarsi con le logiche di gara e Alfredo è stato prezioso per tutti noi.

Maestro anche di Ballerini: eravate parte della stessa covata.

Esatto, e per tutti noi Alfredo è stato un maestro. La mia intenzione è quella di ispirarmi a quel modo d’intendere la nazionale, ossia un gruppo unito, coeso, in cui debba prevalere sempre l’interesse comune, il gioco di squadra per arrivare all’obbiettivo finale, che è riportare la maglia iridata nel nostro paese. Il mondiale è una corsa affascinante, sempre diversa, in cui può accadere di tutto.

Alla sua prima convocazione, nel 1983, la nazionale era quella di Saronni e Moser…
Esatto. Poi ho continuato con Argentin, Fondriest, sino a Bugno e Chiappucci. E, grazie all’esperienza di commentatore tecnico, ho continuato a seguire ogni edizione, studiando sempre il percorso, tenendomi aggiornato.

L’impressione è che quello di Ponferrada sia un percorso sin troppo dolce.
È un mondiale abbastanza facile: non è un tracciato per scalatori, ma non è neppure un percorso per velocisti puri. Sarà necessario studiarlo bene. A metà aprile, infatti, andremo in Spagna proprio per provarlo, per capire come i nostri corridori possano sfruttare al meglio le proprie caratteristiche rispetto a quelle del percorso. Sulla carta, alla fine della corsa dovrebbero arrivare una quarantina di corridori, e non è detto sia un male, per i ciclisti che abbiamo adesso a disposizione.

In un’intervista prima della nomina, citava una sorta di “decalogo per il futuro ct” tra le cui norme vi sarebbe: «impedire ai corridori di provare il circuito mondiale prima di essere in forma». Conferma? Assolutamente sì. Analizzare un percorso senza essere in forma rischia di dare un’idea sbagliata della corsa, reputare più duri alcuni tratti che, se affrontati in stato di forma ottimale, non impensieriscono più di tanto. Quindi ho deciso di portare un po’ di corridori a Ponferrada (Pozzato, Ulissi, ma anche gente più esperta) a ridosso delle classiche del nord, quando sarà piuttosto probabile che stiano bene.

I percorsi mondiali sono quasi sempre poco selettivi, una tendenza costante, negli ultimi anni, magari con l’eccezione della passata edizione fiorentina…
Sì, e anche lo scorso settembre, se non avesse piovuto, la gara sarebbe stata probabilmente meno emozionante. Non so: un tempo, una volta ogni tre, quattro anni, c’era un mondiale duro, da scalatori, adesso ci stiamo abituando a un altro tipo di percorsi. Sai, l’Unione Ciclistica Internazionale sceglie in base anche alle disponibilità economiche e alla presenza di sponsor. È anche vero che i valori dei ciclisti sono molto livellati e fare la differenza non è affatto semplice.

In effetti, se si pensa al mondiale del 1994, ad Agrigento, all’edizione in Colombia, a poca distanza…
La stagione successiva, per la precisione: vittoria di Olano davanti a Indurain e Pantani. Di certo, guardando il calendario, anche le prossime edizioni non prevedono asperità particolari: a Richmond, negli Stati Uniti, ci sarà qualche strappetto, niente di eccezionale. L’anno dopo, in Qatar, a meno che non costruiscano montagne artificiali, sarà una gara per velocisti.

Andiamo in corsa: radioline sì o no?
No. I nostri non le avranno. Il ciclismo su strada è uno sport complicato, difficile, e le corse spesso si risolvono in base a decisioni prese nel giro di quattro, cinque secondi. Sono dell’avviso che un corridore debba sviluppare un proprio “senso” della corsa e debba essere in grado di agire in autonomia per il bene della squadra in cui corre. Le corse si preparano, ne possiamo parlare per settimane, cercando di sviscerare ogni problema, figurandoci ogni possibile scenario, ma, alla fine, chi corre deve avere la responsabilità di quello che compie durante la gara.

Uno dei problemi, forse, della gestione della nazionale da parte di Bettini è stato quello di non avere un… Paolo Bettini tra i propri alteti. Davide Cassani ha, invece, “un Cassani”, un regista in gara, tra i suoi?

Penso che ci sia e credo di avere bisogno di corridori che leggano ciò che avviene in strada, sul momento. Il ciclismo è uno sport in cui l’esperienza conta moltissimo, senza quella, le gambe da sole non bastano. È anche per questo che ho convocato atleti navigati, gente come Tosatto, giunto alla soglia dei quarant’anni, come Ivan Basso: professionisti veri, che sono i primi a inforcare la bici e gli ultimi a scendere, a fine allenamento. Anche questo rientra nella mia idea di nazionale: un gruppo in cui tutti si sentano coinvolti, importanti, a prescindere dalle strategie, da chi avrà più o meno il compito di lottare per il titolo. Anche io non ho, per adesso, “un Bettini”, ma la stagione è solo all’inizio e possono succedere moltissime cose. Sarà nostro compito interpretare al meglio gli eventi e puntare forte su questa idea di nazionale.

L’esperienza dello stage, positiva, sarà riproposta? Saranno coinvolti i corridori più in forma?
La nostra intenzione è di riproporre un’esperienza simile a giugno, un altro stage un po’ più mirato, in occasione del Campionato Italiano. Io credo molto nell’importanza di una corsa come quella tricolore e mi dispiace vedere edizioni come quella passata, in cui al via si presentano solo in settanta. Valorizzarla rientra in quell’idea di rinnovamento e coesione che vogliamo comunicare a tutto il mondo ciclistico nazionale. Ovviamente, per lo stage ci rivolgeremo agli atleti che reputeremo più adatti al disegno, senza nessuna preclusione: la maglia azzurra è un patrimonio di tutti e questo dev’essere ben chiaro.

Biagio Cavanna, scopritore di Girardengo e Coppi, cercava ciclisti tra muratori e contadini, gente “affamata”. Il nostro ciclismo, oggi, soffre della carenza di “fame” dei giovani italiani?
Le cose sono molto cambiate e, ovviamente, lo sport viene interpretato in un altro modo. La “fame”, settanta, cento anni fa, era certo un dato sociale importante, ma già ai miei tempi, la situazione era un’altra. Io stesso vengo da una famiglia normale, in cui si stava bene, ma la prospettiva di partecipare a un mondiale, di correre per traguardi importanti era la leva decisiva. La “fame” di corse, a un ragazzino che decide di dedicarsi seriamente al ciclismo, viene a prescindere, anche perché, altrimenti, si darebbe un altro sport. Questa è una disciplina che, al di là di tutto, tecniche di allenamento, mezzi innovativi e quant’altro, si basa e si baserà sempre sulla fatica, sul sacrificio.

Esiste un qualche fenomeno, come avviene da qualche tempo nel calcio, nel basket, nell’atletica, di avvicinamento da parte di “nuovi italiani” al mondo delle due ruote?
Anche qui, al raduno, tra i ragazzi juniores, abbiamo un italo-bosniaco, Seid Lizde , ormai italiano a tutti gli effetti. Sai, il mondo si evolve ed è giusto che anche lo sport contribuisca all’inclusione, al superamento di pregiudizi.

Il ciclismo e il nuovo mondo: atleti come Chris Froome, “africano bianco”, Nayro Quintana, sudamericano andino, presentano parametri fisici notevoli, un tempo impensabili. È questo il futuro? Oppure pensiamo all’Africa orientale, al Maghreb, veri e propri bacini di maratoneti: il futuro della due ruote è qui?
Sono convinto che tra vent’anni, una volta che queste terre così ricche di fisici resistenti, adatti a reggere sforzi prolungati, avremo probabilmente un ciclismo in cui il 30% del gruppo sarà nero. È così già adesso in moltissimi altri sport, non vedo perché dovremmo fare eccezione. L’importante è che, in quei paesi, giunga la cultura della bicicletta, perché ogni sport è un’espressione culturale, prima che fisica.

A questo proposito, viene in mente il caso francese: dopo una serie di stagioni in cui il ciclismo d’oltralpe risultava in crisi, i cugini pare si siano ripresi, presentando una covata di talenti interessanti. Potremmo ispirarci ai loro metodi per rivitalizzare il nostro sistema?
I francesi sono molto bravi a programmare nel tempo, a dedicarsi alle attività di base. Rappresentano un esempio importante anche per noi, ma per trarre ispirazione dovremmo cambiare sensibilmente, dato che sono partiti investendo molto sui settori giovanili, anche non immediatamente legati alla strada. Hanno quarantamila bambini che corrono sulle BMX, da noi mille. E stanno curando molto anche la pista, un settore che ci vedeva tra i migliori e che, negli anni, abbiamo colpevolmente trascurato.

C’entra, in qualche modo, anche l’educazione sportiva a partire dalle scuole.
I bambini italiani, secondo varie ricerche, sono tra i più pigri, tendenti all’obesità e meno avviati allo sport.

Sarebbe necessario un cambiamento di paradigma culturale.
Uno dei problemi è che in Italia lo sport è gestito per lo più in ambito privato, mentre, a un certo livello, sarebbe interesse pubblico invitare le persone a uno stile di vita sano. È un problema più complesso di quanto sembri: una popolazione che non presta attenzione allo sport, si ritrova una spesa sanitaria più alta, quindi, come vedi, si tratterebbe anche di una questione d’indirizzo politico-culturale.

Dagli esordi nei primi anni Ottanta, al ciclismo di oggi, proiettato nel futuro: Davide Cassani è un testimone importante della storia recente di questo sport. Quanto è cambiato?
Quando ho esordito, le bici pesavano nove chili e si correva con la maglia di lana… Sono cambiate moltissime cose, dall’alimentazione ai materiali, dal modo di stare in sella all’interpretazione delle corse. Di costante, però, c’è la fatica, la solitudine e il sacrificio che uno sport come questo impone e, ovviamente, trasmette. Il ciclismo non può non essere uno sport popolare.

È lo sport epico per eccellenza, legato allo sforzo e al racconto.
Un Giro d’Italia, un Tour de France, una Milano-Sanremo sono ancora oggi competizioni che richiedono una preparazione, fisica e mentale, incredibile. Non ci si può improvvisare ciclisti e questo chi ci segue lo sa bene. Infatti, al di là dei vari problemi, il ciclismo è ancora uno sport amato da tantissima gente.

La disciplina che ha combattuto più di ogni altra il doping e, paradossalmente, proprio per questo motivo, percepita come lo sport dei dopati…
A me viene francamente da ridere sentendo certi luoghi comuni sul ciclista, come se fosse il più incosciente, il più drogato. Nel mondo dello sport contemporaneo c’è una logica che porta, in alcuni casi, a tentare scorciatoie: ma se si pensa che la cosa riguardi solo il ciclismo, si è davvero fuori strada. Da un lato, pur essendo uno sport popolare, alla fin fine coinvolge interessi assai minori rispetto ad altre discipline. E poi, come dici tu, siamo gli unici che abbiamo, da tempo, cercato di fare pulizia davvero, senza nascondere niente, facendo tutto alla luce del sole. Avere meno protezioni ci ha esposto, quindi, a casi ben più eclatanti rispetto a quelli occorsi in altri ambiti. Quelli che contano meno o che, al contrario, sono più popolari e ricchi riescono ad arginare meglio certe situazioni. In ogni caso, credo che il ciclismo, ora più che mai, sia lo sport più pulito tra quelli professionistici: perché ha fatto, e continua a fare, pulizia.

Anche quella del doping, alla fine, è una battaglia culturale, non solo medico-sportiva.
In una società come la nostra, trovatemi un singolo settore dove, al fianco di persone che si comportano correttamente, non vi siano i furbi, quelli che cercano di trarre vantaggio forzando le regole o infrangendole direttamente. Ecco: perché dovremmo chiedere al ciclismo, o allo sport in generale, di essere per statuto migliore del mondo di cui esso stesso è espressione? Purtroppo anche barare è nell’indole dell’uomo, impossibile impedire che qualcuno provi a imbrogliare. Abbiamo visto che il coglione che ci casca c’è sempre. L’importante è sorvegliare e beccare chi si comporta scorrettamente. Anche e soprattutto a tutela di coloro che competono nel rispetto delle regole.

Il passaporto biologico è la soluzione migliore?
Penso che quello, i controlli a sorpresa, sommati a una politica di prevenzione e informazione che parta sin dai settori giovanili, siano tutte misure che diano, già adesso, dei frutti. I ragazzi che stiamo tirando su hanno una mentalità nuova.

Il fatto che a capo di alcune squadre vi siano ancora ex atleti rei confessi rispetto a casi di doping non rischia di destare sospetti?
Però ci sono anche calciatori trovati positivi che, una volta allenatori, hanno vinto Coppe dei Campioni e campionati in più nazioni. Bisogna avere equilibrio e capire i casi, di volta in volta. In casi di recidività si deve colpire duramente. Per certe sostanze è da augurarsi la radiazione al primo caso di positività, data la situazione critica in cui siamo stati per anni, ma se una persona ha sbagliato una volta, nel passato, ha fatto ammenda e ha capito l’errore senza ripeterlo, trovo che sia giusto anche permettere il reinserimento professionale. Le pene ci sono per essere scontate, non tutte debbono essere permanenti.

Parlando al Cassani commentatore, al quale, per familiarità con una voce che ci ha accompagnato per anni, sentiamo di dare del tu (al ct, invece, diamo del lei per questioni istituzionali): il passaggio al microfono è stato naturale, vedendoti subito a tuo agio, uno dei migliori commentatori tecnici di tutto lo sport. Hai avuto imbarazzo a occuparti in senso “critico” di chi, poco tempo prima, era tuo collega?
Ho avuto una grande fortuna, paradossalmente, nel farmi male al momento giusto: sono caduto di bici e, immediatamente, è arrivata la RAI a propormi il ruolo di commentatore tecnico. Sono stato contentissimo di calarmi in una nuova dimensione professionale, comunque legata al mio mondo. Non posso dire di aver provato imbarazzo, quello no: in fondo, parlavo di qualcosa che conoscevo, senza mancare mai di rispetto a nessuno. E sono stato fortunato a trovarmi al fianco di grandi professionisti anche in televisione.

Alla fine, ti sei stancato della tv?
In un certo senso, sì. Già nell’ultimo anno carezzavo l’idea di un ritorno alle corse e la proposta della federazione è arrivata al momento giusto. Sono contento di aver lavorato in tv, ma dopo tanto tempo, credo che l’esperienza dovesse finire: e, sai, a volte, con i tempi morti, ti ritrovi a parlare del nulla…

È anche questo il bello, lo dico da spettatore, del ciclismo in tv…
Vero, anche se per me era tempo di cambiare.

Altro salto, nel ruolo di ct. Com’è stata l’accoglienza da parte dei corridori?
Dopo dodici anni in bici e diciotto da commentatore, quella del commissario tecnico è una sfida che mi rende felicissimo. Aver modo di mettermi nuovamente alla prova e, come dicevo prima, traendo spunto da chi ha contribuito a fare di me un ciclista professionista è qualcosa di entusiasmante. Per questo voglio trasmettere l’amore per questo sport e il senso di appartenenza a un gruppo, un’etica di squadra che i ragazzi, gran parte dei quali “cresciuti” con la mia voce da commentatore, mi pare stiano recependo bene. Sai, il salto immediato dalla bici all’ammiraglia può essere brusco, perché ti puoi trovare a dirigere tuoi compagni: nel mio caso, la lunga permanenza televisiva rappresenta una distanza proficua nel definire i ruoli. Ricordo anch’io l’impressione che ci faceva, quando correvo, parlare con Adriano De Zan… Ed è così anche per me, adesso: con i ragazzi convocati posso parlare tranquillamente, scherzare, ma, al momento opportuno, io sono il commissario tecnico e questo loro lo percepiscono bene.

La corsa, da ciclista, che ricorderai per sempre.
Ce ne sarebbero molte, ma, dovendo scegliere, direi i mondiali di Renaix e Stoccarda, quelli in cui sento di aver contribuito attivamente alle vittorie di Fondriest e Bugno.

E da commentatore?
Difficile non pensare a certe imprese di Pantani, anche per il legame che c’era con Marco.

Cosa direbbe il Cassani commentatore al Cassani commissario tecnico?
Gli darei qualche consiglio. E credo che mi ascolterebbe.

La preoccupazione maggiore, adesso, però è: chi sostituirà Cassani al microfono?
Silvio Martinello, un ritorno nel ruolo, con Stefano Garzelli che sta iniziando pure lui a lavorare per la RAI.

Insomma, in bocca al lupo.
Crepi e arrivederci.

Speriamo, in cuor nostro, con una maglia iridata conseguita in terra di Spagna.

(intervista pubblicata per gentile concessione dell’autore, fonte: La Gazzetta di Lucca)

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