Respiro latino: intervista a Franco Simone

9 Gennaio 2014 di Paolo Morati

Franco Simone

“Proprio stanotte mi è arrivata l’ennesima versione di Tu… e così sia, questa volta eseguita da un gruppo cileno”. Esordisce così Franco Simone, cantautore salentino e autore di grandi hit – come Respiro, Paesaggio e tanti altri – che in oltre quarant’anni di carriera, dopo i primi successi degli anni Settanta, ha ottenuto grandi riscontri in giro per il mondo, soprattutto in America Latina. Simone, che possiede un’intensa vis poetica ed una notevole capacità melodica, qui da noi avrebbe certamente meritato un’attenzione più costante. “La cosa incredibile – continua Simone-  è che tutte queste cover stanno arrivando soprattutto in questi anni. Prima dicevano che le mie canzoni erano perfette per me, ma difficili per altri interpreti. Oggi invece mi arrivano dall’estero decine di versioni. Contemporaneamente anche in Italia sta succedendo una cosa strana, con cantanti che si propongono di fare cover ed il cinema che usa i miei brani. Per esempio, Riccardo Scamarcio, in una delle scene principali del film Cosimo e Nicole, canta la mia Respiro”. Qui di seguito il frutto di una lunga chiacchierata, nel corso della quale il cantautore ha risposto alle nostre domande su canzoni, vita e libertà. Con una premessa: dalla sua produzione non aspettatevi il rumore dei decibel, ma la forza delle parole. Che, anche senza strillare, possono comunque lasciare un segno indelebile.

Leggendo i suoi testi, si percepisce una ricerca attenta e minuziosa degli scenari che vuole dipingere. Che cosa scrive prima, musica o parole, per far sì che un’idea diventi effettivamente canzone?

Credo che la regola generale sia quella di comporre prima la musica e quindi scrivere i testi. Certo, esistono esempi di autori che preferiscono fare il contrario. Io, componendo e scrivendo tutto da solo, parole e musica, in genere non ho problemi. A volte scrivo prima il testo in spagnolo, poi in italiano. È il caso della canzone Francesca, nata in origine in spagnolo con il titolo di Alicia. Ricordo che andai alla ricerca di un nome italiano trisillabo perché Alice non mi suonava bene. L’originale recitava infatti: “Alicia es como un sueño que me embriaga de alegría…” e cambiandolo con Alice mi suonava cacofonico. Quindi è diventato: “Francesca è simile a un sogno che mi ubriaca di allegria”. Quando invece traduco i testi in spagnolo e mi rendo conto che sono abbastanza difficili da rendere o emergono cose poco piacevoli all’ascolto, cambio completamente le frasi. Questo perché ogni lingua ha il suo fascino e le sue caratteristiche. Pensiamo alla parola libertà. Il concetto che esprime è bellissimo ma da cantare è orrenda, al contrario di quella inglese freedom che è meravigliosa. Tra l’altro, credo di essere uno dei pochi che ci rimettono cantando in inglese. L’inglese in genere è come uno smacchiatore, fa sembrare tutti bravi… lo si vede anche nei talent show dove spesso, quando i concorrenti cantano in questa lingua, sembrano tutti accettabili. Ma poi, passando all’italiano, emergono tutte le magagne. Essendo io molto passionale e istintivo, con il bisogno di sentirmi parecchio coinvolto, sento il bisogno della padronanza dell’idioma per esprimermi esattamente come sono. Poche volte ho cantato in inglese. Preferisco farlo in italiano, francese e spagnolo, o in latino, perché sono lingue che conosco bene ed amo.

Passiamo a Cara droga, brano che racconta il dialogo tra un tossicodipendente e la droga. Ci racconti la sua storia, come si è immedesimato nel protagonista e cosa ricorda del periodo in cui è stata pubblicata.

Ho sempre amato leggere le lettere per entrare nella psicologia del pubblico e all’epoca (siamo nel 1977), sfogliando la rivista Ciao 2001, mi imbattei in quella di una ragazza che stava spegnendosi per via della droga. Decisi di portare in linguaggio musicale il suo pensiero. Io ho molto amato la filosofia e il pensiero di quella ragazza mi aveva ricordato le idee di Schopenhauer, che pensava che la stessa natura si divertisse a perseguire dei suoi disegni di cui noi siamo all’oscuro. Nel caso di quella ragazza emergeva il concetto di una fragilità rispetto a una forza più grande di noi. Pur nella sua drammaticità tutto ciò mi sembrava terribile, ma bellissimo da raccontare. La canzone nacque in dieci minuti, parole (con versi come “Approfitti di un istante in cui non reggo la mia solitudine e riempi la mia mente di quei vuoti che riesci a vendermi” oppure “Travestita da compagna che si offre nuda solo per amore in un letto di piaceri artificiali tu mi sfianchi e te ne vai”, n.d.a.) e musica insieme. La cosa incredibile è che il mio manager Maurizio Dinelli, con il quale ancora oggi collaboro, conoscendo i miei “sistemi mentali” lesse la stessa lettera e mi chiamò chiedendomi se non fosse il caso di farne una canzone… e io l’avevo già fatta! Cara droga creò molti equivoci e ci fu chi la criticò aspramente… anche tra coloro che sostengono che ognuno deve vivere la sua vita, deve essere libero di esprimersi, ma poi attaccano chi non è d’accordo con loro, facendo l’opposto di quello che predicano. D’altra parte è stata molto amata da persone che mi hanno avvicinato, ringraziandomi per essermi calato nei loro panni. In ogni caso è stata fatta in assoluta buona fede e la ritengo una delle mie più grandi canzoni d’amore… verso tante persone poco fortunate, ma dotate di grande sensibilità.

In Al tramonto, a nostro parere una delle più belle e commoventi del suo repertorio, affronta il tema dell’amore in vecchiaia e dichiara “al tramonto della tua vita ti amerò”. Ci ha colpito la frase “Quando il tuo corpo coprirai per farmi dimenticare quante volte ti sei lasciata amare dagli altri”. Da che cosa è stato ispirato il testo?

È nato quando ero ancora giovanissimo, nel momento in cui pensi che il senso dell’amore sia divorante e totale (cosa che comunque confermo ancora oggi). Ritengo che l’amore abbia la capacità di resettare tutto quanto e quindi far emergere sempre la forza e lo stimolo per ricominciare. Anche della sensualità del resto ho un’idea positiva e i miei studi classici sono stati fondamentali in questo senso. Per me l’amore è quello che mi ha insegnato Platone… che non è in ogni caso quello non consumato. Il vero amore platonico è infatti quello assolutamente sensuale. Quando Platone diceva che l’amore ti dà le ali, si riferiva infatti anche al momento in cui lo vivi, lo consumi… fino a farti meravigliosamente consumare! Secoli di sessuofobia hanno distorto il senso del pensiero platonico e dell’amore in generale.

Nel 1977 cantava “Ogni giorno nuovo è un giorno mio, a quelli già trascorsi ho detto addio”. È ancora di questo avviso oppure ogni tanto si guarda indietro? Ritiene che nella vita non bisogna avere rimpianti e ricominciare ogni giorno sempre da capo?

Penso che non bisogna rimuovere il passato, ma tenerlo in considerazione solo per vivere meglio nel presente. Io non conosco rimpianti… solo alcuni affetti mi mancano. La mia idea è che il presente vada considerato sempre in modo migliore rispetto al passato, che è già morto… mentre il presente è in costruzione e può essere sempre migliorato. Per dirla sinteticamente, alla Jovanotti, ritengo che sia necessario pensare positivo.

In La ferrovia racconta invece la storia di un ragazzo che si ribella al mondo chiuso in cui ha finora vissuto e decide di cambiare vita: “E… mi ribellai… scavai nel fondo di me stesso e mi ribellai… ma io non parlai… cambiai soltanto abitudini e gente e me ne andai…”. È un brano autobiografico? Ci può raccontare qualcosa in più della sua infanzia e adolescenza?

Credo che sia la storia di chiunque, con le sensazioni che si scatenano nell’adolescenza e la voglia di capire. Ma dentro c’era già espresso anche quello che è il mio pensiero attuale. Ed è talmente autobiografica che non la canto mai dal vivo. Tra l’altro ho notato che dalle mie parti questa canzone è amatissima, perché vi si riconoscono tutti. L’ho composta, l’ho messa da parte, e, ogni volta che ritorno al mio paese natale, ritrovo la stazioncina citata nel testo, che ha ancora la stessa “aria di donna sola”. Di quel periodo ho solo ricordi di grandi affetti. Del resto, provengo da una famiglia con nove figli dove ci vogliamo tutti molto bene. Credo che amare i propri familiari sia la chiave di accesso all’affetto generale verso gli altri… Il più diffuso peccato della nostra società è l’ignavia. In generale si dice “chi te lo fa fare?… lascia perdere, fatti gli affari tuoi…”. Ecco, ritengo che farsi solo gli affari propri sia una cosa spregevole… invece non viene nemmeno più messo in discussione, viene insegnato dai genitori ai figli con la massima naturalezza. Penso anche che, se uno ha un dono, ha il dovere di metterlo a disposizione degli altri. Faccio l’esempio della mia voce, che tra l’altro nella mia adolescenza avrei voluto cambiare: quando ho capito che con essa potevo comunicare delle cose, l’ho usata in quel senso. (Nel brano Una storia lunga una canzone non a caso canta: “Dicono di me, che io brucio tutto ma poi c’è, qualcosa in questa voce mia, qualcosa che mi ha dato Dio, la parte mia migliore…”, n.d.a).

Il suo ultimo disco di inediti è inserito nel cofanetto Nato tra due mari, ripubblicato poi anche con il brano Accanto, con il quale si è aggiudicato il Globo d’Oro 2011 come miglior canzone per il film Native di John Real. Ha ancora senso registrare dischi oggi?

Inutile nascondersi: si fanno ancora i dischi per creare delle cose nuove, ma oggi, a sentire parlare di disco d’oro o di platino, viene da ridere. Un tempo questi venivano assegnati per la vendita di milioni di dischi ed io in casa effettivamente ne ho tantissimi che mi sono guadagnato in quel modo. Ma, al di là del mercato, oggi comporre e registrare nuovi dischi mi entusiasma ancora più di prima. In questo momento sto ad esempio componendo uno “Stabat Mater”, un’opera rock sinfonica, a cavallo tra la classica e la leggera. La sto registrando con due voci magnifiche: quella di Michele Cortese, con cui ho registrato di recente la canzone Riflesso, e quella del tenore Gianluca Paganelli, attualmente impegnato a Londra come protagonista maschile di due opere impegnative come la Carmen e la Bohème. Questo progetto mi entusiasma… come se non avessi mai fatto altro prima! Un’altra iniziativa realizzata di recente è poi il duetto con Daniel Cantillana degli Inti Illimani, un gruppo che nella mia giovinezza mi appariva mitico. Altre nuove registrazioni alle quali tengo sono quelle realizzate con il gruppo Makay, con la raffinata direzione artistica di Francesco Tosoni. Insieme abbiamo già registrato due brani: Distacco e In viaggio.

Nel 1989 ha pubblicato l’album Totò che ebbe un grosso riscontro anche negli Stati Uniti. Tra i versi della title track si legge “Io ti ringrazio mio buon santo protettore perché conosco la differenza tra ridere e soffrire e se mi è dato di regalare ancora un sorriso lascia pure che credano che non conosco il dolore”. In questo caso si riferisce a un attore comico che sul palcoscenico deve fingere per far felice il pubblico. Pensa che questo possa (debba) valere anche per un cantante e nella vita in generale o la maschera ogni tanto vale la pena metterla da parte?

È uno degli album a me più cari, canzoni che ho amato e vissuto con un coinvolgimento totale, per cui mi sento assolutamente responsabile del risultato. Si tratta di una frase ispirata dall’immagine di Totò che recita la preghiera di un clown in un suo film. Penso che si possa adattare a tutte le persone che si rendono conto che, per stare insieme agli altri, bisogna dare il meglio di sé… ed anche essere creatori di allegria. Un concetto simile a quello espresso nei Pagliacci di Ruggero Leoncavallo… E inventare l’allegria non vuol dire certo fingere. Nel momento in cui l’autore si sente capace di raccontare delle cose apparentemente finte, è lì che invece racconta la verità… un personaggio al servizio dell’arte assume il ruolo di amplificatore di qualcosa che non appartiene più solo a lui.

Il suo è uno di quei casi in cui il cantautore è anche profondo interprete, tanto che negli anni si è anche distinto per diverse cover, oltre a registrare due album solo voce e piano che mettono in risalto questa sua caratteristica…

Credo di aver aperto una strada quando, come cantautore, non era ancora facile proporre delle cover. All’epoca io non avevo bisogno di brani altrui visto che i miei entravano puntualmente in classifica. Tuttavia cominciai a inserire in ogni album una canzone non mia che amavo. Mi sembrava una cosa bella, ma i tempi non erano maturi perché tutti capissero il senso di quei miei omaggi a “fratelli maggiori” come Paoli, Endrigo, Lauzi, Modugno… Oggi ormai operazioni analoghe non fanno più notizia. Quando canto mi metto al servizio dell’autore, indipendentemente dal fatto che l’autore sia io oppure un collega. Anche come docente di canto ho cercato di insegnare il rispetto per gli autori. È stata una grande soddisfazione quando una mia ex allieva, Cristina Scuccia, oggi suor Cristina, ha vinto la manifestazione Good News Festival, arrivando persino a cantare all’Arena di Verona. È stato bello aiutarla a liberarsi di un’eccessiva timidezza, che le impediva di esprimere il suo grande talento… perché, timidi o non timidi, gli artisti veri sono quelli che sanno lasciarsi andare sulla scena, offrendosi completamente, in un rito antico e sempre nuovo, che fa somigliare ogni esibizione artistica a qualcosa di religioso.

In America Latina ha un grossissimo seguito e un legame che negli anni l’ha portata a diffondere anche in Italia l’arte di personaggi come la cantante e poetessa Violeta Parra, della quale ha riproposto canzoni come Gracias a la vida e Volver a los 17, nonché l’argentina Mercedes Sosa. Dal canto suo, il pubblico cileno le riservò nel 2003 un’accoglienza trionfale al festival di Viña del Mar. E sempre in Cile un sondaggio ha posizionato tre suoi brani tra quelli italiani più amati di tutti i tempi, con Paesaggio addirittura al primo. Com’è il suo rapporto con quei Paesi?

Penso a Violeta Parra e Mercedes Sosa… è incredibile che in Italia non si sia quasi mai sentito parlare di loro se non in particolari contesti. In generale la musica latina americana è discreta, non urla. Credo che sia anche la chiave del mio successo da quelle parti. Quello di Viña del Mar è un festival che ho fatto tre volte. Fin dall’inizio sono andato in America Latina a cantare per la gente, quella vera. Ai tempi del regime della giunta militare, in Argentina venni messo al bando. Il mio nome finì nell’elenco degli artisti proibiti. Tuttavia, la mia popolarità mi diede la possibilità di intervenire per liberare una ragazza che, nonostante non avesse alcuna colpa, quasi sicuramente sarebbe finita tra i desaparecidos. Intanto in Italia uscivano interviste che non avevo mai rilasciato, con virgolettati in cui sostenevo, per esempio, di avere avuto successo grazie ai miei occhi verdi… facendomi passare per un deficiente! Penso che nei miei confronti ci sia stata molta scorrettezza e scarsa professionalità. In generale credo che i media dovrebbero ricordare che siamo il paese di Verdi, Rossini, Bellini, Puccini, Donizetti… e sappiamo comporre melodie come nessuno al mondo. Tornando al discorso del latino, la bellissima lingua del mio nuovo Stabat Mater, è sconfortante che venga studiato più all’estero che in Italia. Dovrebbe vergognarsi chi dice che si tratta di una lingua morta. Morti sono tutti quelli che lo dicono! Il latino è un meccanismo perfetto di etica, estetica, matematica, musica… un compendio del meglio che abbiamo!

La musica italiana all’estero. Come è accolta oggi in America Latina?
Oggi siamo in pochissimi ad esportarla, perché spesso la nostra musica tende a scimmiottare stili che non ci appartengono. All’estero ricordano che noi siamo il paese di Michelangelo, Dante, Galileo… e oggi non possiamo sperare di farci apprezzare copiando quello che gli altri fanno meglio di noi.

Da qualche anno conduce sul circuito Gold una trasmissione, Dizionario dei sentimenti, in cui suona e dà spazio a musicisti di varia estrazione, duettando e conversando su vari temi. Che cosa si è proposto con questa iniziativa?

È un programma che va sempre meglio e che nasce dal gusto reale di fare musica, dando spazio ad artisti che spesso non lo trovano altrove. Cito come esempio i Têtes de Bois, che hanno il ‘difetto’ di fare cose di qualità, oppure i meravigliosi Après La Classe. Ma anche nomi più noti come Mariella Nava, oppure Bungaro, che fanno musica eccellente da decenni. Per quanto riguarda le altre reti televisive, sono spesso costretto a rifiutare di intervenire. Un solo esempio per capire in quale orrenda situazione ci troviamo: mi chiamano in una trasmissione, molto seguita, chiedendomi di portare mia moglie per parlare della famiglia. Io rispondo di no perché lei non ama apparire in pubblico. Mi chiedono allora di partecipare comunque insieme a una donna e io propongo di portare con me Silvia Puddu, la bravissima cantante dei Makay. A questo punto mi rispondono: “Va bene, ma devi dire che è la tua amante!… ” La novità di certi autori televisivi è che oggi, messi lì non per merito, ma per appartenenza politica, neanche si vergognano delle eresie che dicono… ma qui il discorso diventa complesso. In fondo la musica, nel suo rapporto diretto con l’artista, costituisce già una ragione per andare avanti, comunque, con entusiasmo.

Come descriverebbe la situazione attuale del nostro Paese a livello culturale?

La televisione ha grandi responsabilità…. Purtroppo, spesso, nei momenti di maggiore volgarità, arrivano gli applausi più consistenti. Di solito mi si dice che questi fenomeni stanno accadendo ovunque… ma l’Italia prima non era ‘ovunque”, non veniva confusa con paesi senza storia e cultura. Di recente ho pubblicato su Facebook alcune foto di Firenze e, tra le osservazioni arrivate, c’era quella di una pittrice straniera che diceva “beati voi, perché noi non facciamo altro che cercare di copiare quello che voi avete intorno. Le nostre cose più belle sono una pallida ombra di quello che avete voi”. Questo discorso vale anche per la musica, che non deve essere impoverita… altrimenti i nostri nipoti canteranno ancora le canzoni degli anni Sessanta e Settanta, perché nel frattempo non si stanno producendo classici. Non si fa altro che rimaneggiare cose già sentite. I talent e i programmi con i bambini che cantano hanno portato in tal senso a cose disastrose. Su questo punto ammetto di essere poco democratico e non ho nemmeno voglia di stare a discutere. Sono convinto che si stiano devastando le cose più belle di quell’isola felice che dovrebbe essere l’infanzia. Spesso ci sono programmi condotti da gente che non ha la più pallida di idea dell’argomento che si sta trattando. Non dico nulla di nuovo se affermo anch’io che da noi non c’è meritocrazia e chi è dotato deve spesso rifugiarsi all’estero. Meno male che è arrivato questo Papa!… una figura fondamentale anche per chi non è religioso. Nessun Papa europeo avrebbe avuto la sua forza innovativa, perché ormai l’Europa sta vivendo una sorta di declino che mi ricorda quello dell’Impero Romano… Papa Francesco è arrivato da lontano con una semplicità che non è mai banalità. La sua è una vera rivoluzione! Cose che per altri apparivano tristi, come la povertà, col suo messaggio diventato mezzi di bellezza e di degna convivenza.

Una domanda sul successo, partendo dal testo de L’infinito tra le dita dove canta “Un artista, dici che sono un artista, Ma forse pensi solo al successo E il successo ha sempre convenzioni e regole Mentre l’arte segue tutto un altro percorso…”

In queste parole sintetizzo tutto il mio pensiero. Non ho mai valutato il successo come viene considerato normalmente. Non mi interessa essere riconosciuto per strada. Mi piace invece percepire che, quando vado in scena, sto raccontando delle cose che fanno parte, sì, della mia vita, ma riguardano anche quella degli altri. Trovo che questa sia una cosa meravigliosa. L’espressione artistica mi affascina… il resto, i numeri… non li ho mai capiti. In Sud America ho cantato nei club più piccoli e negli stadi dei Mondiali, e, nello stesso momento in cui qui alcuni mi accusavano di avere un carattere un po’ difficile, là mi consegnavano premi alla carriera e mi indicavano come l’artista più disponibile. La verità allora qual è? Io credo che l’artista abbia il dovere di agire con assoluta libertà, senza considerazioni opportunistiche. In fondo anche a scuola vivevo situazioni analoghe: al liceo classico i professori mi davano 10 in condotta, ma a qualcuno di loro sbattevo la porta in faccia… perché se lo meritava! Alle elementari una volta ritenni di aver subìto un‘ingiustizia da parte di una maestra e mi rifiutai di partecipare ad una recita, andandomene. Il mio spirito è rimasto uguale… e mi va benissimo così! Gli artisti, tutti, devono conservare il cuore di un bambino.

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