L’aria è ancora fresca: intervista a Goran Kuzminac

23 Gennaio 2014 di Paolo Morati

Goran Kuzminac

Sono passati più di 30 anni da quando le nostre orecchie incontrarono per la prima volta le canzoni di Goran Kuzminac, cantautore uscito da quella fucina di talenti che si chiamava It. I suoi brani più noti, come Stasera l’aria è fresca, Ehi ci stai e Stella del Nord, hanno rappresentato solo un capitolo di una storia artistica proseguita poi sotto meno riflettori mainstream, per una scelta di indipendenza che lo ha portato a spaziare su più ambiti artistici. Scelta che oggi lo vede evolvere ulteriormente verso le nuove opportunità offerte dalla Rete a cominciare dal crowdfunding con cui ha realizzato il suo nuovo album insieme allo Stefano Raffaelli Jazz-Quartet. Lo abbiamo intervistato per fare il punto su passato, presente e futuro.

Partiamo dalle sue origini. Lei è nato nei pressi di Belgrado per poi trasferirsi ancora bambino in Trentino con la sua famiglia, e frequentare un collegio in Austria. Cosa ricorda della sua infanzia, quanto è ancora legato alle sue radici e come queste esperienze pensa abbiano poi influito sulla sua vita, e il suo carattere di artista e uomo? 

Questo essere senza radici, o meglio ancora, averle sparse per l’Europa mi danno una visione più contaminata della vita in generale e della musica in particolare. Il fatto di parlare molte lingue, aiuta a capire più anime dello stesso universo, anche se poi in verità basterebbe solo la musica per comunicare appieno.

Quando e dove ha capito che avrebbe potuto diventare un musicista e come è arrivato ad affermarsi come un ‘virtuoso’ del finger-style? Ci può spiegare di che cosa si tratta e come si differenzia dal modo di suonare la chitarra in modo più tradizionale? Quali sono stati i suoi riferimenti e se dovesse scegliere tre nomi decisivi nella storia della ‘sei corde’ chi citerebbe? 

Ci sono infiniti modi di suonare ogni strumento. È un universo in evoluzione. Ogni giorno qualcuno nel mondo, scopre che una corda percossa in un dato modo, rende una vibrazione diversa dal solito. La scuola “classica” ti insegna il come, ma non il perché. L’ignoranza invece “inventa”. Basta farsi un giro su Youtube, per scoprire cosa riescano a combinare con una chitarra mezza rotta e con corde mancanti, alcuni musicisti africani.
Io esco dalla scuola dei cantautori, dove erano importanti i testi delle canzoni. Poco importava se grattavi disperatamente la chitarra per accompagnarti. Il pubblico che seguiva questo genere di musica, in pratica seguiva idealmente un recital di poesia. Io forse ero un po’ più curioso dei miei colleghi, e perciò cercai di far cantare anche lo strumento che avevo in mano, senza violentarlo, ma pizzicandolo, e dandogli un ritmo. Fui il primo in Italia a usare questa tecnica per scrivere canzoni. Era la vecchia scuola del Blues, e del Regtime trasposto per chitarra. All’inizio degli anni Ottanta in Italia eravamo veramente pochissimi ad usare questa tecnica. Non potevo avere riferimenti precisi in quel periodo, perché non esisteva internet, e i dischi di “fingerstyle” erano introvabili.

Nel 1979 vinse il Festival di Castrocaro con Stasera l’aria è fresca, doppiando poi il successo con Ehi ci stai, sul podio al Festivalbar del 1980. In particolare quest’ultimo brano si distinse come un inno alla libertà, a osare un po’ di più nel gioco della vita. Come è nato e, a più di 30 anni di distanza, quanto la rappresenta oggi? Ritiene che il suo messaggio possa essere ancora attuale?

Il divertimento e il buonumore, sono caratteristiche umane che non passano mai di moda. Perché dovrebbe invecchiare una canzone che diverte, fa cantare e dà un po’ di carica quando ne hai bisogno? Nonostante siano passati moltissimi anni, sono due canzoni che ho ancora piacere a eseguire dal vivo. Dopo quelle, sono seguiti altri sedici cd, con decine di canzoni anche più belle e dirette, ma l’energia dell’inizio, è difficilmente superabile. Quando hai vent’anni, sei un folle coraggioso, poi diventi un saggio attento ai particolari. Questo rende tutto più perfetto e bello, ma i colori non sono più così vividi come quando sei un giovane entusiasta. 

Ha collaborato con diversi cantautori, tra l’altro alcuni che ruotavano attorno alla It di Vincenzo Micocci al quale fu presentato da Francesco De Gregori. Cosa ricorda di quel periodo e quanto oggi – nell’era dei talent show – un modello di quel genere è replicabile per trovare nuovi validi artisti?

Quel periodo leggendario non ha nulla a che fare con i talent show di oggi. Nessuno ti buttava allo sbaraglio mentre eri ancora impreparato. Nessuno ti vedeva come un prodotto, da vestire, pettinare, tatuare, colorare, come fossi una Barbie o un Ken da vendere ai ragazzini. Si parlava di musica continuamente. Si faceva musica continuamente. Si scriveva musica e ci si confrontava. Ci volevano due o tre anni per fare il primo 45 giri con due canzoni, ed altrettanti per un album di otto o dieci. Nessuno di noi era solo una “hit” per un’estate, ma un autore prolifico che poteva dare molto di più. Una carriera iniziava in sordina e poi durava una vita. Oggi i ragazzi che partecipano ai talent, esplodono e brillano per un’estate, e poi scompaiono nel buio più totale, senza possibilità di ritorno. E chissà quanti grandissimi talenti sono stati bruciati così, sull’altare dello show a tutti i costi.

A un certo punto, dopo aver pubblicato anche un album prodotto da un nome internazionale come Del Newman (Prove di volo) contenente la hit Stella del Nord, decise di lasciare la label con la quale incideva. Può spiegare le ragioni di questa scelta e, con il senno di poi, lo rifarebbe? 

Ogni mia azione, quando l’ho compiuta, sembrava una follia. Ma se pensi che non ho fatto altro che seguire un discorso semplice e coerente, non appare più così incomprensibile. La verità è che considero la capacità di scrivere musica, un dono. Qualcosa di bello e prezioso, che non c’entra nulla con il denaro, o la fama, o il commercio. È musica, e come le emozioni non si svende. Nessuno di noi vuole che qualcuno gli sporchi i sogni. Alla RCA era andato via il vecchio illuminato direttore, ed erano arrivati dei “commerciali”. Gente che aveva lavorato per un produttore di detersivi o di computer. Ma io non sono né un fustino di detersivo né un computer. E infatti dopo pochissimo tempo, la più grande e bella casa discografica italiana, andò venduta. Adesso nei locali dove sono state registrate le più belle canzoni italiane, dove cantò Sinatra e suonarono i più grandi musicisti classici mondiali, si vendono scarpe…

Il suo ultimo disco, frutto della collaborazione con lo Stefano Raffaelli Jazz-Quartet, è stato realizzato con un modello di produzione che sfrutta la piattaforma Musicraiser. Può raccontarci qualcosa in più di questo lavoro, di come è nata l’idea di non suonare – per la prima volta – la chitarra e di come vede il mercato discografico odierno? Pensa che il futuro sarà anche del crowdfunding e che si andrà sempre di più verso un allontanamento dalle classiche case discografiche e catene di distribuzione per proporsi direttamente al proprio pubblico senza intermediazione? Perché? 

Non esistono più i negozi di dischi. Ve ne siete accorti?  Solo qualche grande ipermercato, o catena di librerie. I discografici con la loro mancanza di politica per il futuro, si sono ridotti al solito “Sanremo”, legato ai soliti “Talent”. Che poi stanno diventando una cosa sola. L’ultimo “Grande” della generazione degli autori italiani che si è imposto sul mercato è Ligabue. Fatevi due conti. Sono più di vent’anni che la discografia ufficiale non produce o scopre qualcuno di veramente valido e duraturo. Perché? Perché non vedono oltre il fatturato mensile. Perciò nemmeno avvicinarsi a loro, sono inutili e dannosi. Il crowdfunding libera da queste catene. Permette che l’amore e l’interesse per un musicista o un progetto, possa essere finanziato e aiutato da chi lo ascolta. Un finanziamento piccolo ma diretto. E tanti piccoli, fanno in modo che un grande sogno si possa realizzare. Per quanto riguarda il disco jazz.. bè come ho già detto la parola giusta è “contaminazione”. Io non suono jazz, ma canto. E la voce rimane comunque lo strumento principe di tutti gli esseri umani. Sono rimasto affascinato dalla dolcezza e dalla complessitaà degli arrangiamenti di Stefano Raffaelli. Sono convinto che sarà una cosa che rimarrà molto a lungo nelle orecchie di chi ascolta.

Mettiamo da parte un attimo l’attività di cantante. Lei è laureato in medicina e in particolare da qualche anno svolge l’attività di musicoterapeuta. Ce ne può parlare? Quali sono esattamente i campi dove si applica e i risultati che si possono ottenere? 

Mai usata la mia laurea, se non come cultura generale. Ma la mia curiosità mi ha spinto a usare la musica e le parole con i pazienti di un ospedale psichiatrico. Non col metodo classico dell’ascolto e della risposta, ma mettendomi io come filtro ai loro ricordi, alle storie che mi raccontano, alle poesie che scrivono. Queste cose le faccio diventare canzoni. Piano piano, sotto i loro occhi. Piano piano, perché possano impararle. Perché alla fine possano cantarle a piena voce, riconoscendo le loro parole nel testo. I risultati sono stupefacenti, sia sotto il punto di vista del rapporto umano, che da quello della loro autostima.

Un’ultima domanda la vogliamo lasciare per un suo brano più recente, Bimbi buoni. Una favola di sostanziale denuncia della classe politica, incisa sei anni fa e contenuta nell’album Dio suona la chitarra. Quanto nell’era di Internet la musica può ancora rappresentare un principale strumento di informazione e consapevolezza e qual è il suo giudizio sull’attuale situazione italiana e sulla possibilità di recupero del Paese? In poche parole, la politica (ma anche gli italiani in generale) “ci sta” o “ci fa”?

Italiani. Un popolo strano. Ma voglio credere che la storia sia una ruota che gira sempre allo stesso modo. Non impariamo mai nulla dagli errori. Sosteniamo ciecamente pessimi leader, ma poi in qualche modo, ce la caviamo sempre. L’unica cosa che mi fa paura, è che le cose sono cambiate moltissimo negli ultimi cent’anni. La comunicazione attraverso la TV e i giornali, non è mai stata così invadente e totale. Non esiste più l’opinione pubblica, ma solo i consumatori… Ma ce la caveremo… ce la caveremo… In fin dei conti è l’Italia!! (sorride, n.d.a).

Share this article