Franco Rossi

30 Ottobre 2013 di Stefano Olivari

Ricordare Franco Rossi nel solito e rancido modo giornalistico, tipo ‘maestro incommensurabile’ oppure ‘fulgido esempio di impegno civile’, sarebbe un’offesa per l’uomo che ha appena lasciato questo mondo a causa di un tumore. Giornalista dentro e fuori, al punto che è per tutti noi impossibile immaginarlo staccato dalle sue storie. Molte pubbliche, come quelle che per decenni ha scritto per Tuttosport-Corriere dello Sport-Giorno e per qualche anno raccontato a Telenova: da prima firma di calciomercato a inviato a Mondiali e tutto il resto, quello che si poteva raggiungere in questo mestiere l’aveva raggiunto. Ma poi è inutile spiegare chi fosse, proprio qui… Moltissime delle sue clamorose storie erano invece semi-private, per amici ma non solo: praticamente chiunque lo fermasse per strada (e sono stati in tanti) usando un minimo di educazione riceveva in omaggio rivelazioni e aneddoti riguardanti presente e passato. Protagonisti di ogni tipo, più o meno legati a quel calcio di cui Franco Rossi non si era affatto stancato: Mancini (il suo preferito, per distacco), Mantovani, Brera, Ronaldo, Berlusconi, Renée Simonsen, Garrincha, Coco, Moratti, Lucky Luciano, Meazza, Nicole Kidman, Gilardino, Leonida ma anche Leonidas, Moggi e mille altri conosciuti di persona. In mezzo a non metaforiche lacrime stiamo ridendo da soli ricordando le pirotecniche versioni non censurate delle varie storie, qualcuna dalla verificabilità incerta ma tutte irresistibili per la capacità di creare curiosità e attenzione anche in chi le aveva sentite mille volte. Una qualità su tutte, che gli veniva riconosciuta anche in vita e che quindi possiamo ricordare a maggior ragione ora: il senso della notizia, di ciò che interessava o no ai lettori e ai telespettatori. Non è una cosa scontata: non basta buttare lì due banalità su Juventus e Inter, ne saremmo capaci tutti, ma bisogna saper cogliere quel dettaglio che fa scattare il desiderio di ascoltare e partecipare. Impossibile lasciare a metà un suo pezzo, fosse anche stato sugli scenari di mercato più improbabili o sulla posizione di Gamarra, impossibile cambiare canale incrociandolo, impossibilissimo contenere una cena con lui (quando stava bene) in un tempo inferiore alle 4 ore, di cui 2 dedicate alle storie evergreen che i devoti sottolineavano con annuimenti in stile ‘Kyrie Eleison’. Impossibilissimo e anche non desiderato: solo il grigiore del resto dell’esistenza poteva strapparci a quel mondo magico, fatto di partite memorabili e di Nilton Santos che la passava a Didì, di guerrieri spartani gay, di cardinali in mezzo a ogni intrigo, di Recoba che in realtà era peruviano ma a volte anche cileno (o viceversa, tanto era lo stesso). Tanta capacità di raccontare nascondeva una vita privata a prima vista triste ma per molti versi invidiabile: la famiglia si era liberata di lui bambino (madre emigrata in America lasciandolo prima dai nonni e poi in un orfanotrofio, padre scomparso presto e riapparso fuori tempo massimo, per caso, in un bar, prima di eclissarsi per sempre), ma lui si era liberato della famiglia e dei tanti vincoli di una vita borghese. Un matrimonio lampo e con mille versioni, tutte peraltro fornite da lui stesso (la più frequente: con una giornalista jugoslava a Dublino…), soprattutto tanti amici ai quali lui ha dato tanto e senza calcoli: Masa, Matteo, Giovanni, Leopoldo e tanti altri che sono orgogliosi di averlo conosciuto. E poi le passioni, tante e travolgenti lungo 69 anni vissuti intensamente: il cinema (mai visti tanti dvd tutti insieme, nemmeno nei vecchi Blockbuster), gli orologi, il Brasile, la cucina, i viaggi, soprattutto le scommesse (nella sua esistenza ha anche gestito un’agenzia ippica). Ha guadagnato tanti soldi e ne ha spesi tantissimi, incassando con nonchalance fregature storiche e solleciti di pagamento. Era tutt’altro che un santo, ma era vero. Maestro di giornalismo? E chi se ne frega. Chi lo ha davvero capito lo ricorderà con un sorriso.

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