Cinquantaquattro colpi di spazzola

11 Settembre 2013 di Simone Basso

Il momento che fotografa gli U.S. Open 2013, e forse un’epoca, arriva nel sesto gioco del terzo set: fin lì, avanti di un break, Djokovic sembrava essersi impossessato dell’intero Arthur Ashe Stadium. Nadal aveva arretrato vistosamente – sul finire del secondo parziale – il suo baricentro, eppure sui teloni o quasi aspetta (fiducioso?) il calo nervoso dell’altro. Che arriva sotto forma di due diritti, il primo addirittura banale, sbagliati dal serbo… L’ora di vernice del match era stata un compendio disumano e straordinario di robotennis, violentissimo, con Rafa – una macchina da guerra nei recuperi laterali – che picchiava scientemente sul diritto ballerino del rivale. Poi, nel secondo set, dopo un magnifico attacco in controtempo di Nole, uno scambio spaventoso – una mostruosità di cinquantaquattro colpi – sembrava ribaltare l’inerzia della contesa.

Che si sarebbe evoluta, almeno sino all’abbrivio del quarto set, con un canovaccio abbastanza consolidato: Djokovic coi piedi in campo che prova a piazzare vincenti, Nadal che rincorre, in difesa, alternando i back ai soliti topponi. Novak difatti perde l’incontro proprio quando, tecnicamente e tatticamente, è nelle sue corde. Nel Robotennis Incorporated, nella selva di occasioni non sfruttate dal belgradese, si vince anche e soprattutto cancellando le memorie negative: sul quattro pari, 0/40, il minotauro sommozzatore riemerge grazie alla proverbiale continuità psicofisica e al primo (!) ace della sfida. Il Djoker invece, nel game successivo, consegna il set point altrui su un diritto facile, col “portiere” fuori causa. L’attimo che rappresenta la finale di Flushing Meadows si materializza: Nadal sale due a uno nei parziali e nella prepotenza dei “magli”, Djokovic molla la presa definitivamente.

Epilogo perfetto, da playstation, per un torneo che (ri) afferma due concetti simbiotici: il ritorno sul tetto del mondo di Nadal, proiettato minacciosamente – a livello Slam – in quota Sampras, e il trionfo – al crepuscolo del federerismo – di una concezione postmoderna del gioco. Quantitativo anziché qualitativo, orizzontale invece che verticale, nel catino (sempre più cafonal) che vide un tempo l’esaltazione del tennis d’attacco. Per esempio, di un clamoroso bis (1998) di Pat Rafter – opposto a Scud Philippoussis – che in questi dì ci appare lontano secoli, non quindici anni. Del resto l’omologazione picchia duro – Serena Williams, al quinto U.S. Open vinto, ha dichiarato: “Ormai il cemento è come giocare su una superficie in terra rapida” – e regala dividendi immediati.

In pancia però, nemmeno fossero derivati, covano temi poco rassicuranti. Questo non è più uno sport per giovani, la componente atletica – costruita – ha soverchiato quella balistica – istintiva – e stiamo assistendo a un’inedita abiura della nuova generazione, impalpabile ad alto livello. I Dimitrov e i Tomic effigiati sui cartoni del latte sono paralleli al ritorno di quasi ex giocatori come Hewitt e Robredo. Non bastasse questo, particolare preoccupante per i procteriani che muovono le fila, il declino dei movimenti storici – Stati Uniti e Australia – potrebbe mettere in difficoltà, tra non molto, la vendibilità del prodotto in mercati vitali. E’ il vero motivo della finalissima disputata alle 17 del lunedì: incrociare il cosiddetto opening day della Nfl garantirebbe ascolti americani da tivù pubblica di quel luogo…

Così, al netto del tredicesimo major del Batman di Manacor, o dei Wahnbriefe del Mago Merlino, rimaniamo con un titolo del Wall Street Journal in un pezzo scritto da Tom Perrotta: “Stanislas Wawrinka brought the U.S. Open to life”. Il romando, l’altro svizzero (sic), ha regalato col suo turborovescio e le variazioni di ritmo, nelle partite contro Murray e Djokovic, l’unico vero antidoto alla monotonia imperante. Il segnale che comunque, dal punto di vista tecnico, i vecchi gesti – implementati da alcune migliorie nel dinamismo – danno ancora un vantaggio rispetto al braccio di ferro contemporaneo. O almeno ci piacerebbe che così fosse. Altrimenti, al giudice arbitro, consiglieremmo, al posto del vetusto “Rafael Nadal to serve”, un bel “Ready, go!”…

(per gentile concessione dell’autore, pubblicato sul Giornale del Popolo dell’11 settembre 2013)
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