La rivoluzione tradita di Cuba

2 Luglio 2013 di Stefano Olivari

Soy La Otra Cuba è il film-documentario che Pierantonio Micciarelli ha dedicato al grande amore della sua vita: il popolo cubano, prima ancora di una rivoluzione tradita che per l’autore è stata comunque mito per almeno metà dell’esistenza. Chi vuole andare oltre gli stereotipi di genere, filo-castrista o esule di Miami che sia, deve assolutamente vedere questo straordinario lavoro iniziato nel 2009 e terminato di montare nel 2012, che non a caso trova problemi di distribuzione. Difficile accettare la realtà, per chi è abituato a dimostrare tesi indifendibili. Il film è in sostanza la storia di una grande trasformazione, che riguarda i cubani veri ma anche il protagonista. Micciarelli stesso, che in stile Michael Moore ci mette la faccia. Senza però ideologismi, nonostante i suoi tanti viaggi a Cuba siano stati quasi sempre dettati dall’amore per una certa idea. Rappresentata più dall’assalto alla caserma Moncada (26 luglio 1953) e dal coinvolgimento del popolo nella rivoluzione che da tutto quello che fa parte della cameretta di molti adolescenti italiani: Che Guevara in primis. Micciarelli, con una barba castrista e un vestito di ottimo taglio (da diplomatico in un paese caraibico di mezzo secolo fa, diremmo), vuole subito comunicare il tono leggero e distaccato con cui proverà a raccontare vite quotidiane che invece sono drammatiche. Fin dalla prima inquadratura smette i panni dell’inviato di denuncia, usando un’autoironia che in opere di questo genere è di solito assente. E da lì comincia a intervistare anziani reduci rimasti sulla Sierra Maestra e ragazzi di oggi, alternando discorsi su grandi temi a vicende private. Fisicamente è un po’ il percorso della rivoluzione, scelto non per caso. Non vogliamo bruciare l’interesse per la visione di un’opera che come minimo uscirà in dvd, ma avevamo alcune curiosità che abbiamo voluto soddisfare intervistando il regista napoletano che nel suo passato è stato fra le altre cose (spot, cortometraggi, videoclip) assistente di Silvio Soldini in Un’anima divisa in due e in Pane e Tulipani.  Un incontro nato per caso, dopo aver visto il film e grazie al numero di cellulare datoci dall’amico Paolo Morati: dalla prima telefonata all’incontro in un bar sono passate non più di due ore.

Signor Micciarelli, in Soy La Otra Cuba si vede la trasformazione del protagonista: da entusiasta della rivoluzione castrista, quando arriva sulla Sierra, a osservatore disilluso alla fine del lavoro a L’Avana. E’ andata davvero così?

Nel film sì, nella realtà questa trasformazione è avvenuta in maniera più lenta. Ad ogni viaggio a Cuba riuscivo a conoscere sempre nuovi cubani reali, fuori dagli ambienti turistici di Varadero e da quelli ipercontrollati di certi tour che ti fanno vedere l’unico ospedale che funziona, l’unica scuola con i computer, eccetera… Accettare che tutto quello in cui avevo creduto per anni fosse un falso, pratico prima ancora che ideologico, è stato durissimo. Ho 42 anni e non mi sono ancora ripreso. E non è stato merito solo delle voci libere che esistono a Cuba, come quella di Yoani Sanchez, che ho conosciuto solo in seguito. E’ stato merito dei racconti di vita quotidiana della gente, racconti di miseria e di mancanza di libertà. Fatti non da filosofi anti-castristi, ma da persone normali che non possono criticare il governo nemmeno parlando con il vicino di casa. Che spesso è un informatore, con proporzioni numeriche degne della vecchia Germania Est.

In una scena lei inquadra uno dei tanti slogan da stato totalitario, ma che nel 1959 aveva tutto un altro suono: ‘Pane per tutti, ma senza terrore’. E’ questa la chiave del film?

E’ il paradosso che ho cercato di comunicare. Nella Cuba di oggi, e non da oggi ma dagli anni immediatamente successivi alla cacciata di Batista, c’è il terrore diffuso a ogni livello ma soprattutto non c’è il pane. E’ un fallimento, che non occorre essere economisti per imputare ai fratelli Castro e ai loro sottoposti. Una dittatura stalinista, castro-fascista, che non trova una giustificazione nemmeno nelle condizioni di vita materiali. I racconti della gente alle prese con l’impossibilità di accedere ad un ospedale decente, per non parlare del cibo (la tessera di razionamento non consentirebbe ad alcun essere umano di sopravvivere), sono un atto d’accusa che va ben oltre i discorsi ideologici. Un atto d’accusa anche contro chi ha girato a Cuba film sotto tutela del regime, con inquadrature ‘consigliate’. E’ caduto nel tranello anche un genio come Michael Moore, con il suo Sicko.

Perché in una certa Europa il mito della Cuba castrista resiste ancora?

In gran parte perché tutto ciò che è anti-americano trova un suo pubblico, a prescindere dalla verità: Cuba è uno strumento di propaganda che funziona anche molto lontano da Cuba. E in parte perché manca una conoscenza adeguata della realtà, per colpa di media che hanno, a volte in buona fede e a volte no, raccontato favole.

Come quella di Che Guevara…

E’ un discorso che nemmeno posso fare con gli amici italiani con cui ho condiviso la passione per certi ideali. Ideali in cui peraltro credo ancora. Non credo nei criminali, invece. Ed il Che per gran parte della sua parabola è stato un criminale, per questo la sua trasformazione in un marchio globale tipo Coca Cola mi fa impazzire di rabbia. Vorrei fermare per la strada ogni ragazzo europeo con la maglietta che raffigura il Che e chiedergli: “Tu sai esattamente cosa ha fatto quest’uomo?”

Cosa ha fatto quest’uomo, al di là di essere stato uno dei leader della rivoluzione cubana?

Bisogna premettere che veniva da una famiglia borghese, esattamente come i Castro: Fidél era un avvocato, in Argentina Guevara era medico. Per questo non è mai stato ritenuto dai cubani, nemmeno da quelli che per qualche anno lo hanno apprezzato, uno del popolo. Uno del popolo era Camilo Cienfuegos, non a caso amatissimo e non solo per la sua prematura scomparsa. Il Che ha sempre messo un surplus di crudeltà in quello che faceva, come se dovesse farsi perdonare l’origine borghese. Al contrario di Castro e di altri ha sempre avuto però l’onestà, o l’esibizionismo, per ammetterlo: in molte sue lettere esprime un piacere nel versare sangue che va oltre quello per l’uccisione dei nemici del popolo. Popolo di cui lui non ha mai fatto parte, ma che ha governato con esiti disastrosi. Pochi mesi da ministro dell’Industria e da presidente del Banco Nacional de Cuba ed ecco nel 1962 la necessità della tessera di razionamento. E anche come uomo d’azione non è che avesse chissà quali capacità strategiche.

Da santino per adolescenti a incapace e criminale, non è troppo?

Fu lui a introdurre a Cuba i campi di concentramento e a far addestrare i miliziani da militari della Germania Est e, incredibile, da ex ufficiali tedeschi scappati dall’Europa dopo la guerra. Un collaboratore di Togliatti, dopo avere visto questi campi, parlò senza mezzi termini di nazismo. Da direttore del carcare di La Cabana è stato responsabile di torture degne di quelle della polizia di Batista. Al Che, ritenuto pericoloso e fuori controllo dallo stesso Castro (che non fece niente per salvarlo, nel 1967 in Bolivia), riconosco però un’onestà di fondo  e senza doppiezze che la maggior parte degli altri collaboratori di Castro non avevano e non hanno. Il mito è stato creato da altri, non da lui che era a suo modo vero. Un vero criminale. Di sicuro sono incredibili i discorsi del genere ‘Fidél cattivo – Che buono’ che si ascoltano da tanti conoscitori di Cuba che hanno fatto solo un tour guidato.

Gianni Minà propende per il ‘Fidel buono – Che buono’, direttamente…

Minà è un personaggio che davvero è molto conosciuto a Cuba, più di quello che ci si immagina in Italia. Oltre ad essere l’unico giornalista mondiale ad avere intervistato in esclusiva due volte Castro, ha un filo diretto con lui e con chi gli sta intorno. Ogni volta che arriva a Cuba lo vengono a prendere sotto la scaletta dell’aereo uomini della sicurezza di stato, quasi ogni volta che si parla di Cuba in Europa c’è di mezzo lui. E’ curioso che abbia il quasi monopolio del pensiero occidentale su Cuba, distribuendo anatemi, criticando chi rischia la vita ogni giorno solo per avere un blog e indicando chi deve essere ignorato. Più in generale, Castro è abilissimo nel tessere rapporti con giornalisti e uomini di spettacolo. Costa meno fatica e denaro che costruire ospedali funzionanti. Penso a Sean Penn, ma anche a un grande come Robert Redford. Non che Redford si metta a esaltare Castro, ma è molto attento nel non dare spazio al suo Sundance Festival a tesi che potrebbero portargli cattive critiche.

Tornando a Minà, le risulta che abbia visto il suo film?

Non lo so, mi piacerebbe davvero che lo facesse. Si renderebbe conto del mio amore per  il popolo cubano e del fatto che questo documentario sia tutt’altro che un’esaltazione del capitalismo. Per questo non ho accettato i soldi dei cubani di Miami e l’ho autoprodotto, con alcuni amici italiani che sono entrati a darmi una mano a lavoro in corso. Capisco che Minà possa avere una convenienza professionale nel comportarsi così: avere un filo diretto con i grandi personaggi si può sempre tradurre in interviste o in qualcos’altro. Ma penso che possa apprezzare l’onestà e l’indipendenza del film. Fra l’altro non dimentico, così come non lo dimenticano molte delle persone intervistate nel film, da chi e come era governata Cuba prima di Castro.

E adesso invece come è governata?

Detto delle condizioni di vita degne di quello che noi chiamiamo Terzo Mondo, con l’immagine addolcita da stereotipi tipo rum e allegria, Cuba è governata togliendo libertà ad ogni livello. Ripeto: non stiamo parlando dei classici dissidenti, che in qualche modo anche sotto le dittature riescono a farsi sentire, ma della gente comune. A provarlo è anche uno scoop, devo ammettere involontario, all’interno del film: a un certo punto intervisto un uomo sulla situazione politica, qualche mese dopo scoprirò tramite il telegiornale cubano che quest’uomo, definito ‘eroe’ dal conduttore, aveva il compito di tenere sotto controllo le opinioni politiche degli abitanti del suo condominio. In altre parole, fingeva di criticare Castro per far sì che qualche suo vicino venisse allo scoperto criticandolo ancora più violentemente. 

Curiosità: come ha fatto a portare fuori da Cuba il girato?

E’ stato merito di alcuni turisti italiani, ai quali l’abbiamo passato prima di essere perquisiti dai poliziotti. Dico ‘abbiamo’ perché al film hanno collaborato anche Luca Acerno e Leopoldo Caggiano, miei compagni in questa avventura. Io non ero considerato persona sgradita a Cuba, quindi all’inizio non mi hanno tenuto sotto controllo. Durante le ultime interviste il clima si era fatto pesante e temevo mi sequestrassero tutto il materiale. Così l’ho passato ad alcune persone, che hanno corso un grosso rischio e che ringrazio con tutto il cuore. 

Cosa prevede per il futuro prossimo di Cuba?

Fidél ha 86 anni, Raul 82. Sono vecchi, ma finché saranno in vita tutto questo sistema di terrore starà in piedi. Hanno formato una classe di cosiddetti ‘tecnici’, anche se la loro competenza è ignota visto che l’ultima parola ancora oggi è di Fidél nei campi più diversi, dall’agricoltura allo sport. Il dopo-Castro è imprevedibile, di certo il popolo cubano non vuole più né questa dittatura con pretesti ideologici né una dittatura tipo Batista. Ho notato grande consapevolezza, anche nelle persone più umili che hanno Granma come unica fonte di informazione. Loro li vedono, gli amici e i vicini di casa scomparire improvvisamente qualche giorno dopo una critica al governo espressa magari in un contesto che credevano privato. I desaparecidos ci sono anche a Cuba, parliamo di migliaia di persone.  

Quando tornerà a Cuba?

Mai, finché ci saranno i Castro o loro eredi con metodi di governo simili. Per la cosiddetta ‘Propaganda enemiga’, pseudo-reato che vale per un film come per un discorso fatto al bar, la pena è dai 7 ai 40 anni di carcere.

Perché guardare Soy La Otra Cuba, quando sarà distribuito o uscirà in dvd?

Perché è un film onesto, che mette da parte il mito di Cuba e parla della Cuba vera andando oltre le magliette e gli slogan. Mostrando che il concetto di libertà si può spiegare proprio attraverso la sua mancanza. La libertà è fondamentale, finché ce lo diciamo fra di noi può essere una frase fatta ma quando me lo dice uno a cui manca da mangiare ci credo.

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