Libero suonare: intervista a Nino Buonocore

24 Giugno 2013 di Paolo Morati

Nino Buonocore

E’ uscito in questi giorni Segnali di umana presenza, nuovo album di Nino Buonocore, cantautore napoletano che in oltre tre decenni di attività ha seguito un percorso di ricerca ben definito, lontano dalle tendenze del momento. E che ormai da diverse stagioni si propone con un sestetto di musicisti e arrangiamenti dal sapore jazz. Dopo un lungo periodo trascorso più sul palco che in studio di registrazione, lo abbiamo intervistato su questa uscita, la sua storia artistica e vari aspetti dello scenario musicale e della relativa evoluzione.

Partiamo dal nuovo disco, che arriva a nove anni da Libero Passeggero. Cosa hai fatto nel frattempo e qual è stato il percorso che ha portato alla sua ideazione e realizzazione? In termini di contenuti a cosa si riferisce il titolo Segnali di umana presenza?
In realtà, in questi nove anni ho badato soprattutto ad ascoltare musica e riempirmi di emozioni, suggestioni, vivendo semplicemente il mio normalissimo quotidiano. Bisogna arricchirsi per poter scrivere senza correre il pericolo di ripetersi. In quanto al titolo, posso dirti che è venuto fuori quasi a fermare un concetto che viene ripreso diverse volte nell’album e che riguarda la difficoltà attuale di rimettere l’uomo al centro dell’universo. Schiavo com’è di una omologazione che tende a sottrargli importanza. Il mondo sta via via diventando un grande mercato in cui il gusto non caratterizza più le nostre scelte, e quindi l’individualità delle stesse, ma tende a schiacciare tutto verso il basso e quindi verso la mediocrità agendo fortemente sulle masse.

Mi sembra un album che mantiene sempre bene al centro la tua anima di musicista, senza fare affidamento sugli effetti speciali. Pensi che la cura dei suoni sia ancora oggi elemento primario nelle produzioni e qual è il metodo che utilizzi quando componi e scegli gli strumenti per gli arrangiamenti?

Sarò un nostalgico ma io credo ancora che l’uso di uno strumento “vero” consenta ancora oggi di esprimere la migliore creatività di un musicista. Non ho un metodo preciso per scrivere, ma lascio che siano le circostanze a dettare il processo. Per la scelta degli strumenti seguo il mio intuito badando a non concedere estetismi inutili ma la giusta sottolineatura di ogni passaggio musicale o letterale.

Nel disco c’è a questo proposito un brano intitolato Tutto un altro film dove sostanzialmente racconti la storia di un uomo che non ha sfondato e immagina come sarebbe stata la sua vita se le cose fossero girate diversamente, facendo anche una critica a un certo tipo di fare musica. E’ veramente così difficile emergere e quali sono i fattori che entrano in gioco per riuscire a compiere il cosiddetto salto di qualità rimanendo coerenti con sé stessi?
Parto dalla fine. Solo rimanendo sé stessi si può ambire a fare un salto di qualità. Ma bisogna procedere con calma senza forzature e opportunismi di sorta. Purtroppo non c’è alcuna alchimia che possa garantire la riuscita di un progetto artistico e forse non sarebbe da considerare tale se ci fossero ricette utilizzabili da tutti. Conosco molti musicisti che non hanno avuto la fortuna che forse meritavano e hanno finito per suonare una musica distante dal loro mondo perché intanto si erano sposati e avevano figli da crescere. Oggi li osservo con grande tenerezza perché so cosa significa suonare per vivere piuttosto che vivere per suonare.

Inizialmente Segnali di umana presenza è uscito solo in formato digitale. Pensi che gradualmente il CD, così come eventuali altre alternative di prossima generazione, sia veramente destinato a scomparire o rimarrà lo spazio per accontentare anche chi non si rassegna al trend della musica liquida e quindi non legata al supporto fisico?
Io credo che il supporto fisico sia destinato a sparire gradualmente. Ma mi piace pensare pure che sia destinato a sparire anche il digitale. A volte la tecnologia può fagocitare se stessa e in questo processo diciamo che può giovarsene la musica a tutto tondo. Quella dei concerti dal vivo per intenderci. Con la dovuta modestia e tutta l’umiltà possibile, mi viene da chiedere: “Ma Mozart quando scriveva una nuova opera, come faceva a diffonderla?”

Sei nato e cresciuto a Napoli. Puoi raccontarci qualcosa della tua formazione, come hai iniziato e quali sono stati i tuoi primi riferimenti artistici e non e i primi dischi che hai acquistato?
Nella mia vita ho ascoltato di tutto. Ho avuto, in adolescenza però, la fortuna di avere un fratello rappresentante di dischi che portava a casa ogni tanto il campionario. Così passavo imperturbabilmente dai Doors ai Corvi, oppure dagli Stooges di Iggy pop agli Alunni del Sole e via dicendo. Quando poi ho cominciato, da musicista, a fare un po’ di scelte mi sono accorto che oltre ai capisaldi Beatles, Rolling Stones e Dylan c’era spazio in me anche per un certo tipo di musica un po’ più impegnativa, come Steely Dan, Gentle Giant… Forse è anche grazie a questo appagamento fondamentalmente musicale che ho potuto in seguito apprezzare di più le liriche delle canzoni, scoprendo i Tenco, Fossati, Paoli, De Andrè…

A 18 anni hai registrato alcuni singoli come Adelmo (che è il tuo vero nome) Ferrari. Cosa ricordi di quel periodo?
La mia meraviglia. Il miracolo di poter esprimermi anch’io. Nulla di che sia ben inteso, ma ogni esperienza, se finalizzata alla crescita, la ritengo sempre benedetta. E così che ho imparato a stare in uno studio di registrazione sfruttandone al meglio le potenzialità. E così ho imparato anche a non lasciarmi invischiare, condizionare da quelle stesse potenzialità.

Gli anni ’70 ti hanno visto lavorare anche dietro le quinte, in studio, con il tuo vero esordio solista che arrivò sostanzialmente a cavallo tra i due decenni. In particolare era tuo il brano Se che chiudeva il telefilm L’uomo da sei milioni di dollari, contenuto nel Qdisc Acida. Di gavetta ne avevi però già fatta parecchia. Oggi il mondo dei talent invece ti catapulta improvvisamente sotto i riflettori. E’ così tanto cambiato il mondo che ruota intorno alle sette note?
E’ un’altra realtà. Non ci piove. Vero è che noi una casa discografica la vedevamo come un sogno da raggiungere. Quindi eravamo costretti (meno male) a fare degli step necessari. Suonare in giro, raccogliere opinioni, fare provini su provini in cerca della strada giusta, insomma tutto un lavorio che ti faceva comunque migliorare e soprattutto arrivare a essere pronto per affrontare con la necessaria esperienza un’attività non facile. Oggi ci troviamo di fronte a corsi accelerati per Artista. Ma è l’espressione del tempo in cui viviamo. L’unica conseguenza direi assolutamente negativa, però, è che chi ha poi sfruttato questo trend opportunisticamente (le Majors) si trova oggi a fare i conti proprio con l’incapacità di creare artisti che durino nel tempo.

Fin dagli esordi hai coinvolto anche musicisti internazionali nelle tue produzioni. Coincidenze o scelte precise dettate dalla volontà di dare un sound particolare ai tuoi dischi?
C’era un po’ la curiosità di vedere all’opera mostri sacri della musica internazionale da una parte, e dall’altra la necessità, essendo cresciuto anche grazie a quel modo di fare musica, di vestire la mia musica con l’abito più adeguato. Grazie a questo importante confronto sono riuscito in seguito a meglio definire il mio mondo sonoro. Ho visto molti artisti recarsi all’estero per registrare dischi con musicisti di fama internazionale, ma forse andavano lì con un approccio sbagliato, perché io quel contributo importante spesse volte non l’ho neanche notato. In pratica se vai a impegnare un musicista internazionale facendolo sentire a suo agio, consentendogli cioè di interagire creativamente con la tua musica, è senza alcun dubbio molto meglio.

Puoi dirci qualcosa di più della tua collaborazione con Chet Baker, risalente all’album Una città tra le mani?

Tutto nasce dall’ascolto di Shipbuilding di Elvis Costello. Conoscevo Chet ma non immaginavo che la sua arte potesse spostarsi agevolmente in altri ambiti che non fossero prettamente jazzistici. Fu un fulmine a ciel sereno. Chiesi al mio management dell’epoca di farmi avere un incontro con lui e nel giro di due giorni gli parlai. Gli feci ascoltare qualcosa e lui mi disse che avrebbe suonato in alcuni dei brani che gli avevo sottoposto. Ne scartò solo uno. Quando fummo in studio per registrare scoprii pure che non leggeva la musica e che voleva che io gli “accennassi col canto” il modo in cui volevo lui suonasse. Un fatto molto singolare per un musicista della sua statura. Quando poi abbiamo avuto l’opportunità di fare due chiacchiere libere, ricordo una sua frase accompagnata da un sorriso molto tenero: “Hai stoffa…sei giovane e libero. Mantieni la tua libertà e ti prenderai molte soddisfazioni”! Ne ho fatto un principio irrinunciabile.

Questo album conteneva Rosanna. Ci puoi raccontare la sua storia e come arrivasti a quella combinazione ritmica e di suoni che si arricchisce man mano nel suo svolgimento?
Rosanna è un brano molto semplice, nato semplicemente, arrangiato semplicemente e suonato semplicemente. Peppe Vessicchio mi diede una mano in studio e seppe dare una crescita emotiva e dinamica a tutto il brano che si strutturava in maniera forse anche un po’ troppo ripetitiva. Il risultato credo che fosse all’epoca estremamente fedele alle nostre aspettative. Oggi forse qualcosa la rivedrei…ma la musica va “fermata” in qualche modo, altrimenti non pubblicheresti mai nulla!

Da cosa nasce il tuo amore per il Jazz e quanto ha influito sul tuo modo di scrivere musica e suonarla, nonché sulla tua evoluzione artistica dai primi album a oggi?
Io non vengo dal Jazz e devo dire che fino a un ventennio fa non mi interessava quel mondo. Era una sorta di ghetto nel quale la mia brama di contaminazione non trovava facile accoglimento. E’ grazie anche alle numerose contaminazioni avvenute nel corso del tempo (diciamo pure per necessità di tenere in vita un movimento un po’ troppo elitario ed autoreferenziale) che ho avuto modo di penetrare i suoi significati meno estetici e più concettuali. Potrei dirti che tutto oggi è jazz, pop, rock… ma sarebbe un discorso troppo lungo.

La chitarra è lo strumento che porti sempre con te sul palco, oltre ad avere un ruolo preminente in molte tue canzoni, usata sia come sfondo che come elemento di apertura. Ci vengono in mente brani come E non dire, Il mandorlo e Scrivimi. Puoi dirci qualcosa di più sul tuo rapporto con le sei corde?
Ho, ahimè, un rapporto squilibrato. Vorrei dedicare il mio tempo a studiarne le innumerevoli nuances che ti offre, ma sono spesso attratto di più da tutto l’immenso arco di possibilità espressive dei tanti strumenti in cui mi imbatto. Oggi questo aspetto mi intriga di più e penso di essere in debito col mio chitarrismo. Ma presto ho intenzione di rifarmi dedicando un progetto intero a questo strumento così completo e affascinante.

Che musica ascolti oggi e se dovessi dare un consiglio quali sono i cinque album che ritieni immancabili in una ‘discoteca’ che si rispetti?
Per mia fortuna continuo ad ascoltare senza pregiudizi di sorta. E’ naturale che se una cosa non mi colpisce la mia mente nemmeno la registra. Rispondendo alla domanda sui cinque dischi immancabili, farei un grande torto ai rimanenti miei (circa) 3.000 dischi. Ogni disco, ritengo abbia un suo valore intrinseco. Spesso trova il gradimento di masse e altre volte di pochi sparuti. Ma non per questo sarà mai inutile se è stato realizzato con sentimento e sincerità.

Un’ultima domanda legata al presente. Hai previsto un tour e se sì quando e con quale formazione?
Sto ancora cercando di capire quale sia l’ambientazione che più mi si addice. Se penso al teatro poi mi spiace rinunciare a spazi magari un po’ più intimistici e quindi al momento sto valutando l’ipotesi di agire in modo diversificato. E’ difficile portare il sestetto in ambiti troppo difficili da gestire come spazi. Ma partirò da questa formazione. Avendo quale alternativa anche una più ristretta dedicata per l’appunto agli spazi maggiormente “critici”.
Partirò dunque come base da Vittorio Riva alla batteria, Antonio Fresa al pianoforte e Rhodes, Antonio DeLuise al basso e contrabbasso. A questo set aggiungerò sax e chitarra e/o violoncello a seconda delle varie circostanze che mi troverò ad affrontare.

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