Diverso da Jordan

22 Giugno 2013 di Simone Basso

Pallini incorporati, giordaniani nella struttura, per fermare i pensieri di una serie finale che gli americani definirebbero “..For the ages”.

Duncan meraviglioso. Le talpe racconteranno del pareggio fallito sull’88-90: mai visto Buster Keaton disperarsi così. Però dimenticano le aperture dopo il rimbalzo catturato, i veli, gli aiuti, la posizione in post basso, il giro e tiro, le finte, il rilascio controtempo dello Spalding. Un’accademia, una scuola, col numero ventuno. Trenta in gara6, ventiquattro in gara7. A 37 anni Big Fundamental è l’unico nella ionosfera di Kareem Abdul-Jabbar che, nel 1984, opposto ai Celtics, fece tre trentelli e tre ventelli. Il Cap coi goggleroni, nelle stagioni successive, andò sopra i trenta altre tre volte e i venti in ben sette occasioni. L’ultima a 42 primavere (!) contro i Bad Boys nella gara3 del 1989: scrisse 24 e aggiunse 13 rimbalzi. Capito l’antifona?

I close out difensivi di Miami sono incredibili. Hanno di fatto stritolato il sistema offensivo con la migliore circolazione di palla; devi avere per forza atleti di un livello superiore – James, Wade, Bosh – per permetterti quell’aggressività orizzontale che ti schiaccia su un lato e sulla linea di fondo. Il risultato? Tredici assistenze in casa Spurs nella bellissima: una miseria per la loro qualità. Gli outlet pass di Ginobili divorati dai rileyani sono costati la serie ai popovici. E Danny Green, fatto palleggiare, mostra improvvisamente le umili origini.

Incredibile ma vero, malgrado la fisicità debordante dei LeBroners, si è giocato costantemente nel territorio tattico dei Duncaneers: tranne il pareggio della seconda, gli Spurs hanno sempre tirato più liberi degli avversari. Quaranta il differenziale, dopo le sette gare, in favore della Pop Band.

Vedendo Paul George, Harrison Barnes e Kawhi Leonard in questi playoff, e considerando Durantula (che è ancora ventiquattrenne!) nel comitato, abbiamo compreso che il ruolo dell’ala piccola andrà di gran moda nei prossimi anni. Pterodattilo californiano, il due Sperone, è un altro che gioca il two way game, l’unico che dovremmo considerare seriamente. L’ennesima presa clamorosa di Buford ci pare un califfo con margini di miglioramento inquietanti: a rimbalzo è un mostriciattolo. Siamo – in proiezione, nello spot di tre – dalle parti di Silas, Erving, Grant Hill. Roba grossa.

Hai voglia a far finta di niente, ma i momenti più travolgenti in casa Heat erano con l’uomo di Akron e i quattro bucanieri sul parquet (Chalmers, Allen, Miller, Andersen). Cinque fuori per tre fattori che si alimentano l’uno con l’altro: James, il ritmo e le spaziature. Si nutrono dell’energia difensiva e la trasferiscono di là: in quel frangente il numero sei sembra un videogioco vivente. La reazione chimica produce i tiri di un Battier, che hanno sempre un secondo di vantaggio su chi prova a chiudere nelle rotazioni…

Vi lasciamo, per concludere, con un ampio estratto di un pezzo vergato per Il Giornale del Popolo.

Inutile trattare scientificamente ciò che è dipeso da variabili impazzite: senza il seppuku texano di gara6, quando gli Speroni erano sopra di cinque punti a meno di trenta secondi dalla sirena, racconteremmo un’altra storia. Eppure, tesi originale o ardita a seconda delle opinioni, pensiamo che lo showdown e l’annata siano state decise da Londra 2012 e dal logorio estivo di quella rassegna. Abbastanza evidente nel claudicante (e fenomenale) Parker, nel genio declinante di Ginobili e, per allargare il discorso, nella sequenza di infortuni che hanno colpito tanti reduci olimpici: Bryant, Love, Westbrook, Deng, Noah, Kirilenko, Pau Gasol. Solo un superuomo avrebbe potuto reggere lo stress psicofisico di centosette partite ufficiali, dalla fine di Luglio 2012 fino a ieri, difatti il suo nome è quello dell’Mvp della lega e dell’atleta simbolo di Sternville.

LeBron James è il profeta blasfemo dei tempi moderni: costretto a convivere suo malgrado con aspettative abnormi, generate più dal rumore bianco dei media che da un’analisi, intelligente, del gioco in sè. Curioso che l’erede di Michael Jordan nel marketing procteriano debba confrontarsi puntualmente con il fantasma dello stesso. Un’icona irraggiungibile soprattutto nell’immaginario collettivo. La retroazione ha poi un effetto comico: a ogni primato abbattuto dal numero sei, si autodegenera un dibattito puerile. Una sorta di tesi sull’Hero Basketball, all’insegna del particolarismo più sfrenato, che mistifica la realtà del passatempo (..) inventato da James Naismith. Ecco dunque, alla faccia del jordanismo di ritorno, Re Giacomo nei panni dell’eroe dei fumetti Lobo. Un cacciatore di teste nerboruto che, in un episodio irresistibile, viene pagato dal coniglietto pasquale per assassinare Babbo Natale. E la creatura di Keith Giffen esegue il compito con sommo piacere, anche perchè Santa non è esattamente il brav’uomo raccontato nelle favole… Appunto, il ventitre è (era) un altro chassis; una guardia multidimensionale, un po’ Jerry West, un po’ David Thompson, con una capacità quasi irripetibile di chiudere le contese. James, malgrado quel modello di riferimento sia ancora negli occhi di tutti, discende da una specie differente: trattasi di cyberatleta che ripercorre i passi, nell’evoluzione del tuttofare, di Mo Stokes, Oscar Robertson, Magic Johnson.

Ci piace ricordare, nei giorni che ha annunciato l’addio all’agonismo, il grande Grant Hill: cioè, prima degli incidenti che gli rovinarono la carriera, il post Pippen e l’ante James. L’ex Duke era uno swingman raffinatissimo: il quoziente intellettivo da playmaker, il primo passo ghepardesco e quattro ruoli ricoperti con assoluta naturalezza. Già stradominante, fece assumere in quel di Detroit Chip Engelland per ricostruirgli la meccanica di tiro che, proprio al pari del Prescelto degli esordi, era migliorabile. Lo stesso Engelland che ha lavorato sul jumper di Parker e Leonard (attenti, è forte davvero…) a San Antonio…

LeBron è quella tipologia di all around, versione due punto zero, con la strapotenza di un George McGinnis. L’androide che colleziona trentelli e triple doppie va però ben oltre le cifre (peraltro mostruose). Che non spiegano il suo gioco senza palla, i tagli, i blocchi, quanto sia eccezionale nel ribaltare il lato, nei raddoppi, nella difesa su tutte le razze di attaccanti. Un lusso, un sogno bagnato, per qualsiasi allenatore: lo stesso giocatore che marca un interno (David West) e una point-guard (Tony Parker) è il facilitatore dell’attacco. E’ la versatilità che fa vincere le partite: far canestro non basta. Nel progetto rileyano, supportato da quasi ottantasette milioni di dollari – all’anno! – scuciti dal proprietario Micky Arison, è stato innanzitutto James a salvare il giocattolo, nei coni d’ombra sempre più frequenti di Dwyane Wade (lui sì jordaniano nello stile..) e nell’usura di un combo di veterani (Allen, Battier, Miller, etc.) al crepuscolo. Nel biennio appena trascorso, sul filo sottile che separa il successo dal disastro, LeBron ha condotto le danze come soltanto Hakeem Olajuwon (1994) e Julius Erving (1976, l’ultima stagione Aba) seppero fare in una formazione da anello. Un’impresa degna dei grandissimi di ogni tempo. Il futuro degli Heat, proprio come quello degli Spurs, dovrà per forza passare da un maquillage di buon senso: LBJ, contro i Bulls e i Pacers di domani, potrebbe anche non essere sufficiente. Il presente rimane una fotografia: l’abbraccio sincero, al termine dell’epica gara7, tra il Prescelto e il leggendario Tim Duncan. Il resto è mancia.

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