L’ultimo matrimonio di Phil Jackson

10 Gennaio 2013 di Stefano Olivari

Il Triangolo dei Brooklyn Nets, l’entusiasmo per Seattle e l’uccisione del tifo.

1. Non sappiamo se accadrà fra una settimana, sei mesi o due anni, ma Phil Jackson e i Nets sono fatti per sposarsi. Prima di tutto perché l’allenatore più vincente della storia NBA (undici anelli, sei con i Bulls e cinque con i Lakers) ha una gran voglia di rimettersi in gioco al punto di avere dato la disponibilità per un secondo rischiosissimo ritorno ai Lakers prima che Buss padre e figlio (non figlia, per evidenti motivi: Jeanie e il coach Zen si sono sposati a inizio 2013 dopo oltre un decennio di fidanzamento) ingaggiassero D’Antoni. E poi perché i Nets di Prokhorov sono una squadra che nella NBA mai ha vinto (i titoli risalgono alla gloriosa ABA, con Doctor J a imperare) e che darebbe a tutta l’operazione il senso della sfida invece che della minestra riscaldata. C’è poi l’aspetto tattico, ben sottolineato dall’amico giornalista (ed ex suo assistente ai tempi degli Albany Patroons della CBA) Charley Rosen: i Nets sono una squadra plasmabile, in più già adesso non sarebbero così lontani dal potersi adattare al Triangolo (cioè la Triple Post Offense) che Jackson ha sempre usato come gioco base delle sue squadre pur rispettando l’ego delle sue stelle, da MJ a Kobe. Quali sono i vertici tecnici del Triangolo nella sua strutturazione più classica? Primo. Un giocatore di post basso bravo nel leggere le situazioni: Brook Lopez non è Pau Gasol, ma è intelligente e quest’anno sta piacendo moltissimo sotto ogni aspetto. Secondo. Un’ala che difenda bene e abbia un raggio di tiro decente in modo che il difensore non le stia a tre metri di distanza. Gerald Wallace non è Scottie Pippen, non ne ha l’intelligenza tattica, ma gli è senz’altro superiore come atletismo. Terzo. La stella che cominci l’azione e poi vada a posizionarsi per sfruttare le letture del post basso e dell’ala. Una parte che può essere svolta sia da Deron Willams che da Joe Johnson, con quello dei due che non fa Jordan che va sull’altro lato per creare qualcosa alla disperata quando i giochi del triangolo laterale non portano a niente. In tutto questo l’altra ala può avere varie caratteristiche, basta che abbia l’umiltà di non intasare l’area nella prima parte della fase d’attacco. Controindicazione, in ottica NBA: il leader tecnico del triangolo, cioé l’uomo che riceve il primo passaggio e prende la prima decisione importante, quasi mai è la stella della squadra, ma il secondo violino (Pippen, Odom). Forse solo LeBron James potrebbe cambiare le cose, ma non lo sapremo mai. Complicato? Non tanto, anche se Tex Winter ha disegnato più di cento possibili contro-reazioni alla reazione della difesa. Perché l’aspetto ideologico del Triangolo è molto più affascinante della sua efficacia pratica: è infatti uno schema che presuppone e addirittura auspica l’esistenza dell’avversario e che costringe anche le stelle a leggere il gioco invece che caricare a testa bassa.

2. La sola possibilità che la NBA torni a Seattle, dopo l’era dei Sonics terminata proprio con l’arrivo di Kevin Durant e l’emigrazione, con cambio di nome, a Oklahoma City, ha riempito di entusiasmo molti nostalgici e anche gran parte degli addetti ai lavori. Mentre scriviamo queste righe siamo a una manifestazione di interesse di Chris Hansen, che a Seattle vorrebbe costruire un’arena ma che evidentemente aspetta di avere qualcuno da farci giocare, nei confronti dei Kings dei fratelli Maloof. Delusi dagli ostacoli posti da Stern al trasferimento a Las Vegas e da un certa freddezza di Sacramento, che fra l’altro ha come sindaco un ex campione (Kevin Johnson, nativo di Sacramento e con quasi tutta la carriera da stella dei Phoenix Suns), nei confronti dei loro progetti immobiliari (questa l’abbiamo già sentita), per l’equivalente di 500 milioni di dollari dalla sera alla mattina potrebbero salutare tutti e passare i Kings ad Hansen, che nel giro di una stagione li porterebbe a Seattle. Tutto al condizionale, anzi condizionalissimo. Di certo c’è che nel 2010 i Golden State Warriors, per storia recente, bacino di utenza e prospettive paragonabili ai Sacramento Kings, sono stati venduti per 450 milioni di dollari. E anche che, a dispetto dei luoghi comuni sugli stadi di proprietà, l’iniziativa privata, eccetera, è da anni che la proprietà dei Kings mendica soldi pubblici per la costruzione del nuovo palazzo. Minacciando trasferimenti in altri luoghi, tipo Anaheim, o la cessione di tutta la baracca.

3. Mentre assistevamo a Milano-Cantù, domenica scorsa ad Assago, riflettevamo su un problema insolubile: quello del tifo. Come è noto, si  è impedito ad almeno duemila (e stiamo bassi) tifosi canturini, molti dei quali avevano già comprato il biglietto, di recarsi al Forum: lo stesso provvedimento preso per le trasferte di Caserta e Montegranaro. Scelta priva di senso, considerando che in questo campionato si sono giocate senza limitazioni al tifo sia Varese-Cantù che Milano-Varese, dove l’intensità e diciamo pure la beceraggine della rivalità è simile. Scelta priva di senso anche nella sua genesi, visto, che è stato l’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive a segnalare il presunto pericolo alla prefettura di Milano e non il contrario, come avrebbe dovuto essere naturale. La logica calcistica della paura e della ghettizzazione ha quindi contaminato anche la pallacanestro, senza colpe specifiche dei suoi dirigenti ma anche senza i numeri del calcio: duemila e passa persone sono in questo mondo un pubblico enorme. Senza contare che il tifo e l’appartenenza geografica, non diciamo etnica, sono spesso gli unici motivi per seguire il basket italiano invece che guardare in televisione qualcosa di livello più alto. Ammazzare il tifo, invece di limitarne gli effetti negativi, è un suicidio e anche il calcio di serie A se ne sta accorgendo. Figuriamoci la pallacanestro, che come numeri è paragonabile a quello di B.

Twitter @StefanoOlivari, giovedì 10 gennaio 2013

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