Il saluto molle di Bargnani

6 Dicembre 2012 di Stefano Olivari

La negavità dei Toronto Raptors, la velocità di Bryant e il marketing dei Pelicans.

1. Non ci dobbiamo vergognare di seguire le singole partite e le statistiche più cervellotiche di Bargnani, Gallinari e Belinelli con maggiore interesse di quanto facciamo ad esempio con quelle di Kyle Lowry. Siamo italiani. Ma non ciechi: se non fossero ‘international’ (nel baseball più concretamente dicono ‘foreign’) e di pelle chiara i loro contratti sarebbero di entità ben diversa, anche se nella NBA non ci sono benefattori e quindi quello che si perde dal lato fisico-tecnico può essere recuperato con il merchandising. Buona finora la stagione di Gallinari, finalmente liberatosi dello stereotipo dell’europeo tiratore (e infatti sta anche tirando meglio), da panchinaro (due sole partenze in quintetto) costretto a segnare nei pochi minuti concessi da Thibodeau (a proposito, nonostante gli spot martellanti il rientro di Rose è purtroppo lontano) quella di Belinelli, reduce comunque da una grande serata a Cleveland e penalizzato dal ruolo, assolutamente negativa quella di Bargnani: altalenanti le statistiche, discutibile l’atteggiamento, orrendo il contesto in cui si sta muovendo nel suo settimo anno di NBA. Il terzo da prima punta della squadra, dopo la partenza di Chris Bosh per Miami, il terzo del contratto da 10 milioni di dollari (scadenza 2015) che lo rende il candidato numero uno a una qualche operazione di mercato che rimescoli le carte di una franchigia derelitta e che ha perso tutti i treni buoni. Siccome il mondo non è pieno di 2,13 che possano metterne senza problemi più di 20 a partita solo con il tiro frontale, Bargnani sarebbe l’ideale complemento di una squadra con ambizioni da titolo. Non sarà mai Nowiztki, ma nella NBA di alto livello non sarebbe un intruso. Tante righe inutili per non ammettere che stiamo sognando di vederlo ai Lakers, anche se bisognerebbe mettere in piedi un’operazione a più squadre per consentire a Pau Gasol di non vegetare in una realtà priva di margini crescita, dove i playoff sono un miraggio dal 2008 (fallito l’accesso anche nel 2009-10, in cui c’erano anche Bosh e un Turkoglu arrivato con rullo di tamburi dopo una pazzesca stagione con i Magic) e sono state fallite anche operazioni parapubblicitarie come l’ingaggio di Steve Nash, che ha preferito un anno di contratto con anello possibile ai Lakers a tre anni strapagati in patria. Non c’è luce nel futuro di Toronto, mentre ce ne sarà forse in quello di Bargnani. Siamo ai saluti. Molli, come il suo atteggiamento a rimbalzo.

2. Kobe Bryant è diventato il più giovane giocatore della storia, con i suoi 34 anni e rotti, a superare quota 30mila punti segnati nella NBA. Questa la breve bulgara che rimarrà. Superato quindi Wilt Chamberlain, con i suoi 35 anni e 179 giorni. Curioso e a suo modo simpatico che quota 30mila sia stata scollinata contro quegli Hornets che nel 1996 (era Charlotte) lo scelsero e in cui avrebbe di sicuro avuto un’altra carriera se Jerry West utilizzando il suo carisma e Vlade Divac (e soprattutto la fortissima volontà di Kobe di non andare a Charlotte) non l’avesse portato fin da 18enne a Los Angeles. Ma… c’è sempre un ma. Anzi tre. Il primo è che Chamberlain si fece quattro anni di college a Kansas e un anno negli Harlem Globetrotters (!) prima di entrare nella NBA. Il secondo è che Kobe ha avuto bisogno di 1.179 partite per arrivare a 30mila, mentre meglio di lui hanno fatto Chamberlain (940), Michael Jordan (961), Jabbar (1.101) e Karl Malone (1,152). Il terzo è che gli avversari di The Stilt erano mediamente più forti. Non perché una volta fosse tutto più bello, ma perché le squadre nella NBA erano meno (ad esempio nella stagione 1966-67, quella del titolo vinto con i Sixers, erano dieci) e quindi il talento più concentrato.

3. A proposito di Hornets, il commissioner David Stern è tornato ad occuparsi della franchigia che fino allo scorso aprile era diretta da… lui stesso, in attesa che si materializzasse un compratore credibile con un ‘progggetto’. Il compratore, Tom Benson, adesso vuole cambiare nome alla squadra utilizzando quello di Pelicans, di cui detiene il marchio visto che Pelicans sono anche una squadretta di baseball da lui in passato posseduta (nel presente ha in mano i New Orleans Saints della NFL). Reazioni negative a New Orleans, ma positive di Stern, che ha nella sostanza dato il via libera all’operazione spiegando che c’è libertà imprenditoriale (ma solo quando lo dice lui) e non è che il nome debba per forza avere una logica geografica: “Quanti laghi ci sono a Los Angeles? Lo Utah è famoso per il jazz? E Memphis per gli orsi?”. La questione si lega a quella di Charlotte, perché MJ vuole che il marchio Hornets torni lì dove si è affermato (dal 1988 al 2002), al posto di Bobcats (gli Charlotte Bobcats sono del 2004). Tutto un po’ cervellotico, anche se a posteriori (e solo in caso di successo) verrà fatto passare come genialata di marketing. Sempre comunque meglio delle squadre che in Italia assumono il nome dello sponsor, mettendo a dura prova la capacità dei tifosi di identificarsi, tranne che in casi tipo Scavolini o Montepaschi. In tutto questo ci si chiede perché fra le (poche) maglie ritirate dai New Orleans Hornets ci sia quella del mito Pete Maravich, che in Louisiana giocò sì (a LSU e poi nei Jazz), però mai in niente che c’entrasse con gli Hornets. Che esordirono nella NBA quasi un anno dopo la sua morte.

Stefano Olivari, giovedì 6 dicembre 2012

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