Scandal con mestiere

11 Dicembre 2012 di Stefano Olivari

Il mandrillismo di Bill Clinton, i grandi discorsi di Obama, i collaboratori alla Bush (W.), il nome (Fitzgerald Thomas Grant III) da erede di famiglia Wasp con un tocco irlandese-kennedyano. Il presidente degli Stati Uniti di Scandal, telefilm in onda su Fox Life che ci ha preso pur senza conquistarci, è un po’ un misto di vari capi di Stato americani. In funzione anti-querela, certo. Se non sapessimo che è repubblicano (nella fiction) diremmo che si tratta al 90% di un democratico per l’estasi quasi mistica che sa generare in uomini stupidi e donne intelligenti. Il protagonista non è lui, comunque, ma l’avvocato-lobbista Olivia Pope. Ex assistente del presidente (ispirata alla figura di Judy Smith, davvero assistente di Bush) e adesso a capo di uno studio che si occupa di tirare fuori dai guai chi può permettersi di pagare abbastanza e in genere personaggi con un’immagine pubblica da difendere. Crisis manager, così si autodefinisce. Uno studio privato, con tanto di schiavi pronti a buttarsi nel fuoco per il loro capo, pur mantenendo Olivia contatti con la Washington politica che le tornano utili in varie circostanze. Fra i contatti c’è ovviamente quello con il presidente, del quale è stata amante: fin dalle prime puntate della serie (prodotta dalla ABC) si capisce che qualcosa potrà succedere di nuovo, ma non anticipiamo il finale della prima serie (già in produzione la seconda). A dirla tutta, il sospetto è che Olivia abbia lasciato il posto di direttore delle comunicazioni della Casa Bianca proprio perché non riusciva più a reggere la situazione ambigua con lo sposatissimo ‘Fitz’. In cosa si differenzia Scandal dai miliardi di fiction con la Casa Bianca sullo sfondo? Prima di tutto considera il presidente come pedina di un gioco più ampio e non come un condottiero-fenomeno. La Washington raccontata da Shondha Rhimes (creatrice, fra le altre cose, di Grey’s Anatomy: una delle tante serie ospedialiere che ci rifiutiamo di guardare, abbiamo fatto un’eccezione solo per l’ultra-iper-trash Incantesimo) potrebbe tranquillamente essere Roma, per come qualsiasi decisione politica sia basata su logiche ben lontane dall’idealismo dei discorsi e su come ogni identità si annacqui (il presidente è repubblicano, ma sembra un democratico). In secondo luogo mette in scena il lobbismo nella sua concretezza: ex collaboratori ad alto livello che mettono a  frutto le proprie conoscenze trasformandosi in maneggioni a disposizione di ogni parte politica. In terzo luogo evidenzia in ogni situazione il contrasto fra l’etica protestante che sta alla base della grandezza degli Stati Uniti e la miseria delle pulsioni umane. Forse troppe seghe mentali per un telefilm che in realtà si guarda in scioltezza, pur senza essere un capolavoro, con una storia trasversale alle varie puntate (l’ex impiegata della Casa Bianca Amanda Tanner che sostiene di essere incinta del presidente) e varie sottostorie, non tutte ben scritte (quella della moglie del dittatore sudamericano che lascia il marito è grottesca) ma che servono solo come condimento di un discorso di fondo interessante. E quindi? Quando manca la passione della creatività, c’è sempre il Viagra (o meglio, Cialis, trattandosi di serie) del mestiere. Così come Pippo Baudo è sempre un gran professionista e le lingue straniere vanno imparate sul posto, gli americani i telefilm li sanno fare.

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