Christmas with the yours

27 Dicembre 2012 di Stefano Olivari

L’abbuffata di Natale, la dimensione di LeBron James, gli Hawks a sorpresa, l’anno di Shved e il perché di Milano-Varese.

1. Per una volta abbiamo rispettato i dettami di una delle più geniali canzoni di Elio e Le Storie Tese, abbuffandoci di partite NBA nel giorno di Natale fra computer e televisione. Anche se onestamente non erano stati male gli anni precedenti, in cui ne avevamo vista bene una sola ma sul posto (non è colpa dell’IMU, va detto, ma di altre disgrazie). Le due partite di Natale più attese sono state anche oltre le aspettative, come intensità selvaggia e varietà di temi proposti. I Lakers all’inizio dell’era Nash hanno fatto intravvedere cosa potrebbero essere con il 38enne canadese, non come tipo di gioco (siamo ben lontanti dal dantonismo dei 5 anni a Phoenix, non fosse altro che per la presenza contemporanea di Gasol e Howard anche nei momenti decisivi, oltre che per l’ossessione da ricezione in post basso un po’ di tutti a partire da Bryant) ma come qualità dei passaggi e carisma nei confronti di stelle che hanno il suo stesso status. Nessuna fra l’altro che sia stata due volte Mvp della lega come lui… I Knicks sono una squadra stranissima, che vive su due grandi realizzatori da ogni dove come Anthony e J.R. Smith e sui tempi perfetti di Kidd, potrebbero fare strada in una conference dove dietro agli Heat campioni vale davvero tutto. Nella mini-replica della serie finale dell’anno scorso altro finale tirato, in una partita dominata mentalmente da Miami e da LeBron James, con Bosh scintillante e Wade molto marginale e con evidenti problemi fisici. Hanno rivinto gli Heat, ma eviteremmo gli psicologismi visto che il metro arbitrale nei confronti dei Thunder in attacco è stato da NBA anni Novanta (per la serie: è fallo solo se c’è il morto). Fine del discorso su partite che tutti gli interessati hanno visto, senza una morale esterofila: la serie A italiana non si è fermata, l’Eurolega che adesso parte con la seconda fase (e solo Siena in campo, dopo l’eroica eliminazione di Cantù e quella un po’ meno eroica di Milano) nemmeno: il basket è uno sport natalizio come nessun altro, al di là della retorica sul calcio che dovrebbe copiare la Premier League. D’inverno fa freddo, gli usi di Manchester non devono necessariamente essere uguali a quelli di Bologna.

2. Il 2012 sta finendo in un tripudio di battute sui Maya e di auguri in copia a cui non rispondere, la prossima puntata di Destinazione Palalido sarà pubblicata il 3 gennaio e già si parla di Mvp della stagione. Stando ai primi due mesi, applausi per le statistiche di Bryant (quasi 30 punti di media a partita, capocannoniere assoluto) ma molto meno per le percentuali, le scelte in attacco e i minuti di respiro difensivo che a 34 anni sono ormai metà partita. Per il motivo opposto, statistiche peggiori rispetto ai suoi standard ma impatto tecnico positivo sui compagni, nel discorso Mvp può entrare anche l’ultimissimo Chris Paul. Anthony sta facendo cose straordinarie, magari con il ritorno di Stoudemire dovrà per il quieto vivere prendere meno tiri, Harden sta piacendo nella sua nuova veste di stella a Houston, Durant è migliorato nei numeri ed è l’unico vero rivale di quello che senza troppa fantasia pronostichiamo come Mvp: un LBJ sotto controllo come non mai (fra i primi dieci marcatori è quello con la migliore percentuale) e ‘totale’ come solo lui sa e può, anche per motivi fisici, essere. Non abbiamo elementi diversi dalla sezione ‘Rumors’ di mille siti per dire se è vero che tornerà fra uno o due anni a Cleveland per riprendere un discorso interrotto, ma è vero che anche mentalmente sembra in un’altra dimensione. Se a Kyrie Irving si aggiunge un lungo decente, il resto dei Cavs attuali non è troppo lontano dal livello degli Heat senza James, Wade e Bosh.

3. Noi popolo di League Pass amiamo sopra ogni altra cosa sdottorare sulle squadre che quasi mai si vedono su Sky Sport. Finora la squadra più sorprendente, fra quelle senza seguito in Italia, sono stati secondo noi gli Atlanta Hawks. Dopo il saluto a Joe Johnson (i cui 20 milioni di dollari l’anno adesso zavorrano i Nets) si poteva pensare a un anno triste, in un contesto poco caldo (più sedie vuote che piene, quasi regolarmente). Invece ne è venuta fuori una squadra notevole, un misto di atleti (Josh Smith su tutti), di guardie cretive (Jeff Teague su tutte) e di tiratori (a pari merito Stevenson, Morrow e Korver), che gioca un basket equilibrato e che Larry Drew riesce a gestire anche perché in fondo nessuno si aspettava niente da lui, fra l’altro nell’ultimo anno di contratto e con il fresco gm Danny Ferry che sta pensando ad altri. Sono terzi in una Eastern che per motivi misteriosi è regolarmente la Conference con il peggior livello medio.

4. Dopo i Lakers, in omaggio agli anni Ottanta e all’interesse giornalistico che sanno sempre creare, i Bulls e gli Spurs (ci piacciono le squadre che giocano una pallacanestro organizzata, non gli uno contro cinque mascherati da sistema, tipo la dribble drive motion offense), la squadra che quest’anno seguiamo con più assiduità sono i Minnesota Timberwolves, bravi in termini di marketing a crearsi una identità ‘europea’ (Kirilenko, Pekovic), ‘bianca’ (Love, Barea, Budinger), in mezzo a grandi talenti con la carriera azzoppata da infortuni (Roy) e limiti caratteriali (Howard) ma soprattutto pieni di un genio assemblato da un allenatore di genio come Rick Adelman, per quanto con il treno giusto (i Sacramento Kings degli anni d’oro) già passato. Ricky Rubio è animale da highlights, anche se il modo in cui viene spesso battezzato dalle difese è quasi un insulto, ma il giocatore per cui perdiamo la testa ormai da anni, nonostante questo sia il suo primo NBA, è Alexey Shved. Il russo più creativo della storia (del basket) non si giudica dai numeri, comunque buoni, ma dalla sua presenza in campo nei minuti veri. Nonostante sia sbarcato in America solo a 24 anni, è di sicuro più adatto alla NBA che al basket FIBA. Alla fine il Pete Maravich 2.0 potrebbe essere lui.

5. I novemila che domenica scorsa hanno sfidato le code derivanti dai vicini ipermercati (ne nasce uno a settimana, ma noi rimaniamo per la piccola distribuzione e i suoi ricarichi: al limite meglio Amazon dei casermoni) di Assago non si sono pentiti della coda fatta, perché a Milano-Varese abbiamo respirato quello che con poca fantasia potremmo definire ‘il clima del basket di una volta’. Merito di Varese capolista e con una identità forte, con alcune citazioni nostalgiche come il centrone (per quanto non altissimo) con i movimenti del centro classico. Dunston nemmeno ha tirato fuori la sua miglior partita, anzi, a vincerla sono stati Green e Banks, ma più della tattica ci ha impressionato, anche nella parte milanese, la voglia di rimanere attaccati ad un basket più vicino a noi. In altre parole, nel 2012 la gente non va a vedere la serie A italiana per godersi una grande spettacolo, ma solo per attaccamento a un’idea. Se al posto di Banks ci fosse Giovannino nato ad Arcisate e al posto di Bremer Giuseppino nato a Cornaredo, dal punto di vista dell’interesse sarebbe meglio. E non per i movimenti fluidi di Giovannino e Giuseppino.

Stefano Olivari, giovedì 27 dicembre 2012

 

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