Il posto della Fornero

28 Giugno 2012 di Stefano Olivari

Poche categorie di lavoratori, più o meno lavoranti, hanno chiara la percezione della propria sostituibilità e precarietà come quella del giornalista sportivo. Va di moda dare tutte le colpe al web, dalla pedofilia al traffico di droga, ma ben prima del diffondersi del www lo schiavismo senza garanzie era praticato dalle aziende (questo era il prezzo del biglietto di entrata per i ‘non figli di giornalisti’) e auspicato dagli stessi schiavi che anzi ringraziavano per la grande occasione concessa. Per questo da una posizione tutt’altro che comoda ci sentiamo di dire che Elsa Fornero nell’intervista al Wall Street Journal (questo il link alla versione originale) ha ragione al novanta per cento, nonostante mezzo mondo la stia questa mattina usando come orsetto del luna park con vignette cento volte più volgari del Balotelli-King Kong della Gazzetta o del Brunetta di Vauro (il minimo comune denominatore è che nessuna fa ridere). Il lavoro, nel senso di posto di lavoro, non può essere un diritto. A meno che sia finto, usato come strumento di consenso elettorale: l’assunzione a spese di enti pubblici come risposta alla precarietà, il teorema di Nichi Vendola che evidentemente piace alla maggioranza degli italiani.

Al nostro amico dipendente di Regione (figura non immaginaria, gli abbiamo detto le stesse cose a voce un’ora fa) la concorrenza piace quando riguarda tassisti ed erboristerie, si entusiasma per la nave della legalità ma poi compra la t-shirt a un euro senza scontrino da quel senegalese tanto simpatico. Per usare un’espressione elegante come le cene di Arcore, da consumatori (anche con download illegali, lavori in casa sottopagati e in nero, eccetera) ci piace metterlo nel culo ad altri lavoratori, ma quando torniamo lavoratori improvvisamente scattano riflessi da Cgil anni Settanta. Il posto di lavoro non può esserte un diritto per la semplice ragione che quasi la metà dei posti di lavoro sono diventati inutili, per colpa di tecnologia e di gente che accetta di vivere come nella mitizzata Italia degli anni Cinquanta (e non a caso ci va a produrre la Fiat, rimasta come mentalità e in pratica anche come modelli quasi a quell’epoca). Poi il posto di lavoro è cosa diversa dalla sopravvivenza, visto che anche l’economista da bar può intuire che chi non arriva alla fine del mese debba essere aiutato non con la carità ma con strumenti dignitosi come il reddito di cittadinanza (a patto che non gravi sull’Inps, ‘schienata’ dalla sua parte assistenziale e non certo da quella previdenziale) o altre forme di assistenza. Poi c’è chi il liberista con il posto fisso che teorizza la dura bellezza delle Maserati (non certo la SuperPunto) che sfrecciano in mezzo ai mendicanti, ma non è il nostro genere.

Si ritorna a Vendola e alla sua concezione non solo pugliese (cioè il posto in Regione) del reddito di cittadinanza, ma anche all’amato Kuwait della nostra infanzia dove qualunque kuwaitiano per il solo fatto di essere  kuwaitiano riceveva dallo stato l’equivalente di cinque milioni di lire dell’epoca (fine anni Settanta) e l’uso di una casa medio borghese, mentre gli stranieri (fra i quali nostro padre) lavoravano ovviamente solo in settori ‘utili’: costruzioni, energia, salute, pulizie. Mai conosciuto un kuwaitiano adulto che lavorasse, con esclusione di gente in posti di reale comando. Là tutta la baracca veniva pagata dal petrolio, qui qualcuno vorrebbe farlo con la svalutazione: non ci pare la stessa cosa. Alla fine non se ne esce, rimanendo nell’economia produttiva: la Fornero ha mille volte ragione sul piano culturale, ma il cosiddetto ‘sviluppo’ non si crea per decreto e nemmeno con i mezzucci da manuale tipo tagli del tasso sconto o cose del genere. Entrando nell’economia improduttiva, basata in gran parte su stime e convenzioni, tutto il mondo (specie quello che ha i suoi soldi a Lugano o alla Cayman) ha sentito stime sul patrimonio delle famiglie e di quelle pochissime aziende italiane patrimonializzate: 7.000 miliardi di euro dice chi vola basso, 9.000 chi valuta immobili e asset finanziari in uno scenario senza crolli. Mettiamo che il debito pubblico italiano non sia sottostimato (probabilmente invece lo è, vista la situazione di molti enti locali), si tratta comunque di 1.950 miliardi di euro. In sostanza il 25% di quanto tutti noi messi insieme possediamo. La patrimoniale comunista, da parte del governo più di destra della storia repubblicana, dal punto di vista strutturale è dietro l’angolo (non sappiamo in quali termini, per quelli rimandiamo ai mille siti complottisti e di pseudo-insider) e lo capisce anche il nostro (ex?) amico della Regione, che a tempo debito scenderà in piazza per difendere il suo trilocale. In altre parole, chi ha fatto sacrifici per risparmiare pochi euro avrebbe fatto meglio a spenderli in coca e mignotte (noi personalmente dando tutto quel poco a canili e gattili). Ringrazi i ‘grandi partiti popolari nati dalla Resistenza’, che hanno scritto la sacra Costituzione, roba che Mosé aveva preso le tavole della legge con ironia. E che ci hanno portato a questo punto.

Stefano Olivari, 28 giugno 2012

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