L’ultima battaglia del signor Mivar

19 Aprile 2012 di Fabrizio Provera

I Mondiali di Spagna del 1982. La vittoria di Alberto Cova ai primi Mondiali d’atletica di Helsinki, nel 1983. Le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 e di Seul nel 1988, che sancirono il disgelo sportivo capace di anticipare il crollo del Muro di Berlino. La vittoria della nazionale di basket agli Europei del 1983, in Francia. Cosa accomuna questi eventi, al di là della nostalgia? Il fatto che oltre un terzo degli italiani, dal divano di casa o dal bancone di un bar, li abbia seguiti davanti a un televisore Mivar, la fabbrica fondata a Milano nel 1945 da Carlo Vichi, classe 1923, e dal 1963 stabilmente insediata ad Abbiategrasso, città della provincia milanese balzata agli onori della cronaca negli anni Ottanta grazie a un discorso di Ciriaco De Mita, dal palco di un congresso della Democrazia Cristiana.

La Mivar raggiunse, tra gli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta, una quota del mercato italiano del televisore oscillante tra il 30 e il 35%. Fatturava dai 220 ai 350 miliardi annui di vecchie lire, occupando circa 800 addetti (più l’indotto). La storia di Mivar è da raccontare all’imperfetto, perché dal 2001 la creatura di Carlo Vichi è in lenta ed inesorabile agonia. Al 31 marzo scorso risale la sanguinosa firma su un accordo sindacale, l’ennesimo, che porterà la forza lavoro a sole 25 unità, tra ricorsi a cassa integrazione straordinaria, mobilità e accompagnamento alla pensione per i pochi fortunati che ne potranno usufruire.
Impresa più unica che rara nel panorama economico ed imprenditoriale, Mivar è nata e vissuta sempre all’ombra del suo pittoresco fondatore, un toscano poco avvezzo ai ricevimenti, che trascorreva (e trascorre) 350 giorni l’anno in fabbrica, sabato e domenica compresi. Mivar, che ha sempre rifiutato di spendere un euro (o una lira del vecchio conio) in pubblicità, ha sempre diffidato dall’ingaggio di manager e dirigenti. Vichi, monarca assoluto, ha regnato senza mai disporre di un vero ufficio. Sedeva, siede, a un tavolo di legno, gli stessi abiti o quasi da mezzo secolo. La combinazione tra affidabilità del prodotto e prezzo concorrenziale, l’inarrivabile servizio di assistenza interno, dove i clienti portavano i loro televisori, li riponevano su un carrello, li facevano esaminare dai tecnici e li vedevano riparati in pochi minuti, hanno contribuito ad alimentare il mito di Vichi e ad inanellare successi economici per decenni. L’industriale che invitava i giornalisti economici più famosi (abituati a lussuosi pranzi d’affari da Marchesi in Bonvesin de la Riva, dal Giannino d’antan o alla Scaletta di Pina Bellini) a consumare il pasto nella mensa, a fianco e assieme agli operai. E guai ad avanzare qualcosa, perché il Vichi imprecava, eccome se imprecava…
Nel 1984, chevalier seul, Cassandra inascoltata, Vichi pronuncia in Consiglio comunale ad Abbiategrasso un discorso che preconizza la fine dell’industria elettronica in Italia ed in Europa e il trionfo della Cina e dell’Asia a scapito della vecchia Europa, del Giappone e degli Usa. Ma nessuno gli conferisce una laurea honoris causa. Vichi si arrende al gigante asiatico dopo aver visto i suoi concorrenti cadere uno ad uno, persino la Turchia che ancora dieci anni fa produceva milioni di televisori. Oggi la Mivar ne produce cento al giorno, contro le migliaia e migliaia di un tempo. Il futuristico e avveniristico nuovo stabilimento, realizzato nel 1990 con fondi propri (100 miliardi di lire, zero lire dallo Stato o dalle banche), è una sorta di cattedrale nella pianura padana, mai attivata per disaccordi con il sindacato e per la successiva, ed impietosa, battaglia dei prezzi che ha visto trionfare i grandi nomi dell’elettronica con gli occhi a mandorla.
Certo, Vichi avrà anche perso la battaglia della modernizzazione, avrà sottovalutato la portata innovativa di Lcd e tv a Led. Però è sintomatico che un uomo come Carlo Vichi, alla soglia dei 90 anni, ceda il passo al cospetto di famelici speculatori e degli inventori di strumenti diabolici come i derivati o i Credit Default Swap. Perché sebbene sui generis, e Indiscreto lo rivela in esclusiva, Vichi è il padrone che per decine di volte ha pagato le rate di mutuo a operai in difficoltà, anche se iscritti al Pci (Vichi è un cultore del Ventennio mussoliniano), senza mai chiedere nulla in cambio. Vichi è il padrone che a Natale, il 21 o il 22 dicembre, prelevava 250 milioni di lire in contanti e li distribuiva ai suoi operai e alle sue tante operaie, i più meritevoli. Vichi è il padrone, per chiamare le cose con il loro nome (che non è CEO), che ha sempre aiutato lavoratori in difficoltà, purché leali con lui e la sua azienda. Paternalismo da buttare? Forse chi è in mezzo a una strada butterebbe prima di tutto l’economia finta.
Adesso che il sole si accinge a tramontare per sempre, sull’impero della Mivar, siamo certi che qualcuno non esiterà a dirsi soddisfatto. Che qualcuno sogghignerà divertito, mentre in suo editoriale ci spiega che il futuro è l’Asia. Cazzi vostri. Tenetevi i banchieri inamidati che rifilavano bond Parmalat ai vecchi con il bastone, tenetevi i paperoni delle merchant bank, i private banker, i future banker e i killer banker. Noi ci teniamo stretti il camerata Carlo Vichi, l’adoratore del Ventennio, l’unico che ebbe l’ardire di scrivere al senatore Giovanni Agnelli che gli operai meritano un pranzo decoroso, da consumare in tempi ragionevoli, perché sono uomini e non macchine. Ci teniamo Carlo Vichi, che ha tenuto in piedi le vecchie banche popolari del territorio, che hanno sempre finanziato la piccola e media impresa lombarda, e non certo avventurieri dai capelli ingellati. Ci teniamo Carlo Vichi. Altri tempi, altre imprese. Ma soprattutto altri uomini. E tutti gli altri, come disse il grande Giannibrerafucarlo, che vadano pure a scoa’ el mar.

Fabrizio B. Provera, 12 aprile 2012

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