Quelli che odiano i loafs

17 Marzo 2011 di Roberto Gotta

di Roberto Gotta
Buoni motivi per studiare football anche vicino a casa, grazie al clinic di Fidaf e Afc Italy: tre coach NFL come Dave Toub, Jon Hoke e Steve Mariucci…

Era giusto andare, era giusto studiare, era giusto approfondire: in una parola, imparare. Era giusto ma non tutti hanno raccolto il messaggio ed è un peccato, fermo restando che si giocava una giornata di campionato e che non è agevole liberarsi dal lavoro e dalle mille trappole della vita quotidiana che impediscono all’essere umano di seguire le proprie passioni e le proprie inclinazioni. Era giusto essere a Milano per il clinic organizzato dalla Fidaf e dall’Afc Italy con la collaborazione di Rhinos e Seamen. Tre coach NFL, di cui due attivi, Dave Toub e Jon Hoke dei Bears, e il terzo, il più famoso di tutti, Steve Mariucci, ex head coach dei SF 49ers e dei Detroit Lions e attualmente commentatore di NFL Network.
Commentatore così come era coach: esuberante, esplosivo, energico, che sia o meno per «l’italiano che è in me», come ha detto, ricordando le proprie origini umbre e la storia del padre, nato in Italia e dotato evidentemente di un intelletto superiore, se una volta emigrato negli Stati Uniti non è solo diventato padrone della lingua svergognando inconsciamente tutti gli stranieri che dopo decenni ancora parlano poco più del proprio dialetto, ma persino professore di inglese. La località era Iron Mountain, nella Upper Peninsula del Michigan: un’incongruenza amministrativa, perché la Upper Peninsula è geograficamente un proseguimento del Wisconsin (dista nemmeno due ore d’auto da Green Bay) e al Michigan è collegata solo da un ponte. A Iron Mountain, ma questa è storia vecchia e ben nota a chiunque abbia un’infarinatura di sport americano, Mariucci crebbe assieme a Tom Izzo, il grande coach di basket di Michigan State, che ha avuto l’amico come ospite a molte edizioni della Final Four cui MSU ha partecipato.
Il football visto a Milano, dunque. Tre giorni di spiegazioni e lezioni a mio avviso estremamente interessanti. Non sono un allenatore – anche se mi sarebbe sempre piaciuto esserlo – e dunque non ho le conoscenze specifiche per capire fino a che punto si sia appreso qualcosa di nuovo, ma sono rimasto affascinato da quello che ho visto sullo schermo della sala riunioni dove si sono svolti gli incontri. Che i coach NFL, tra l’altro tra i migliori nel loro settore, si siano dimostrati affabili e disponibili non mi ha sorpreso, dato che ho avuto spesso a che fare con allenatori americani, anche di basket, totalmente privi di arie, specialmente quando è il momento di fare ciò che amano fare, ovvero parlare del loro sport di fronte a persone competenti e preparate, il che naturalmente esclude che di solito nella platea ci siano giornalisti.
Ottimo coach Toub nel parlare di special team: aspetto spesso trascurato, non solo perché obiettivamente in Italia non c’è tempo per occuparsi a lungo di questa fase del gioco, ma anche perché è meno agevole anche per gli addetti ai lavori guardare con attenzione ad aspetti apparentemente nascosti. Particolarmente interessante la spiegazione che ha riguardato il kickoff return team, con le disposizioni dei giocatori della prima linea e i movimenti, non immediati all’occhio che cerca di cogliere tutto con un solo sguardo, della wedge, chiamiamola così anche se nella sua struttura “serrata” è ormai fuorilegge da qualche anno. Si sono colti poi i particolari che ogni coach inserisce di propria testa, le differenze tra un allenatore e l’altro, di pura filosofia. Coach Toub ad esempio non vuole nel return team nessun uomo di linea, né d’attacco né di difesa, perché ha bisogno di movimenti di corsa e di potenziale maneggiamento di palla che difficilmente si riscontrano negli OL e DL. Facile dunque immaginare che nei Bears non accadrà mai, finché Toub ne gestirà gli special team (e se non ci saranno inserimenti causa infortuni), quel che avvenne lo scorso anno durante New England-Green Bay, con la OG dei Pats Dan Connolly a ritornare un kickoff per 71 yards.
Jon Hoke, poi, nella seconda giornata. 54 anni invisibili, vista la forma fisica, ha una carriera variegata: è stato a lungo assistente a livello di college, arrivando anche ad essere defensive coordinator di Florida sotto Steve Spurrier, che ha ricordato con un sorriso ed una battuta («diciamo che è un personaggio… singolare»), poi dal 2002 al 2009 ha allenato i defensive back degli Houston Texans passando successivamente ai Chicago Bears. Ma dal 1994 al 1998 era stato nello staff della University of Missouri, e lì aveva conosciuto Brock Olivo, attuale coach dei Marines Lazio e della Nazionale ma in precedenza grande protagonista proprio a Mizzou – dove hanno ritirato la sua maglia, massimo onore possibile – e poi pro nella NFL con i San Francisco 49ers e soprattutto i Detroit Lions, di cui divenne capitano degli special team. «Brock rappresentò la svolta per noi a Missouri – ha detto Hoke – Prima di lui non si vinceva mai, da quando arrivò lui cominciammo a vincere. Una volta chiudemmo una partita giocando per 8 minuti di fila la stessa azione: palla a Brock e avversari che non riuscivano a fermarlo. Ricordo ancora il canto dei tifosi, ritmato: ‘Brock O-Livo!’».
Hoke, pescando nel suo passato come defensive coordinator, non ha esaminato solo il ruolo dei defensive back (che sono cornerback e safety) ma la filosofia di tutta la difesa, spiegando in maniera molto efficace quale sia l’atteggiamento dei Bears, che giocano una 4-3 base (si intende come base la difesa utilizzata in condizioni normali, al primo e secondo down) ispirata ai principi della Tampa 2, che lì viene chiamata però Over 2. Di fatto, Chicago gioca in maniera molto semplice, puntando più sulla perfetta e rapida («siamo probabilmente la più veloce difesa NFL») esecuzione dei propri compiti da parte di ciascun giocatore che su costanti modifiche della formazione, come accade – peraltro con buoni risultati – altrove.
Particolarmente interessante il sistema di valutazione dei cosiddetti loafs, cioé delle “dormite”: momenti di gioco in cui un giocatore non dà il massimo di sé. Lo staff dei Bears non ha problemi, per motivare i giocatori, a dire ad alta voce in ogni riunione tecnica di revisione dei filmati il nome del giocatore che in una specifica azione non è parso dare il massimo: e quando il capitano o la superstar si ritrova menzionato in una stanza piena di colleghi, l’incentivo a non trovarsi più in quella situazione è enorme. Loafs sono: cambiare velocità di corsa all’improvviso (segnale che PRIMA non correvi al massimo), restare troppo a lungo per terra dopo un contatto se non si è infortunati (il principio della “stufa accesa”, per cui il giocatore deve trattare il terreno come se scottasse e rialzarsi subito), schivare un colpo che si poteva dare, farsi superare nella corsa da un compagno teoricamente più lento. In una partita da circa 60 azioni, i Bears hanno avuto nel 2010 una media di 90 “dormite”, piuttosto alta e dunque da troncare decisamente nella prossima stagione, se e quando inizierà.
Risparmio al lettore il dettaglio degli esercizi svolti poi sul sintetico del Vigorelli, ma molto interessanti, specialmente quelli che possono aiutare un linebacker interno a disfarsi del cut block, il blocco basso, portato dall’uomo di linea d’attacco che sostanzialmente si butta di traverso sulle gambe – manovra consentita in un arco spaziale limitato – e passo ad una considerazione importante per capire un’ulteriore sfaccettatura del lavoro dei Bears in difesa: lo staff infatti nello studiare i filmati acquisisce dati come il numero di volte in cui una squadra avversaria corre (invece di lanciare) al primo down, ma li utilizza per farsi un’idea senza comunicare nulla di specifico ai giocatori. «Se comunichiamo ai nostri che la squadra X al primo down corre nel 70% dei casi, c’è il rischio che il giocatore
si preoccupi prima di tutto della corsa e faccia magari un passo nella direzione della linea di scrimmage cercando di indovinare l’azione: in quel caso hai solo il 70% di probabilità di essere nel giusto, e un ampio 30% di probabilità di sbagliare. Se non diciamo nulla, il nostro giocatore dovrà leggere la situazione e valutare, e le chances di una decisione corretta aumentano».
Mariucci, infine. Che ha proiettato due filmati che lo ritraggono nel corso delle sue esperienze con 49ers e Lions, mostrandone tutta la carica, l’energia, l’umanità non disgiunta dalla severità nel chiedere a ciascun giocatore di svolgere in pieno il proprio ruolo. A San Francisco aveva avuto sei stagioni buone, con 57 vinte, 39 perse e 4 partecipazioni ai playoff, ma dopo la sconfitta contro Green Bay nella finale di conference del 1997 non era più riuscito ad avanzare fino a quel punto, chiudendo con 3-4 nei playoff. Scelto da Matt Millen per rialzare i Detroit Lions, aveva avuto 5-11 e 6-10 nelle due prime annate, prima di essere licenziato sul 4-7 a novembre 2005. Da quel momento, nonostante varie voci che lo hanno collocato di qua e di là (compresi i Packers, dove era stato per 4 anni Qb coach e questo voleva dire Brett Favre, cui è legatissimo), non ha più allenato, diventando commentatore tecnico, nel suo stile ricco di enfasi ed entusiasmo, per NFL Network.
A parte il probabile desiderio di tornare a fare quel che gli piace di più, ovvero stare su un campo (ricordo che vinse anche un titolo NCAA Division II come quarterback di Northern Michigan, nel 1975), Mariucci non ha problemi economici, visto che il contratto con i Lions prevedeva un compenso di 25 milioni di dollari garantiti, ovvero pagabili anche in caso di sollevamento anticipato dall’incarico. E la sua lezione è stata entusiasmante, come ho già scritto. Ha distribuito a tutti una copia ridotta di un game plan, ovvero del manuale di preparazione ad una partita, scegliendo 49ers-Packers del 15 dicembre 2002. Affascinante, anche per chi avesse già avuto tra le mani materiale simile, perché non scaricato da pdf ma “vivo”, con tanto di appunti scritti a mano da Mariucci come coronamento emotivo di quel che era contenuto, in forma più razionale, all’interno. In un angolo spicca un “Hit B. Favre!!!” sul quale il coach stesso ha sentito il bisogno di chiarire, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno: «Ho allenato Brett per quattro anni e lui per me è come un figlio , ma come coach della squadra avversaria devo essere sicuro che i miei difensori gli siano addosso più possibile».
Una parte corposa della lunga (5-6 ore) lezione di Mariucci è stata impostata sull’analisi del game plan in tutte le sue forme, dalle formazioni difensive e offensive dei Packers alle corse e ai lanci che lo staff di San Francisco aveva isolato, per quella specifica partita, come potenzialmente efficaci. In precedenza, Mariucci aveva elencato i compiti e i requisiti per un coach ed uno staff, tra i quali frequenti e importanti gli aspetti legati al rapporto con i giocatori. «Use of player’s name”, ad esempio: «non rivolgetevi mai ad un giocatore con “tu” o con il semplice numero, dovete chiamarlo per nome, per renderlo partecipe e non solo una entità anonima». Oppure «Rapport with ALL players», per avere un contatto con tutti i giocatori e non solo con i veterani o quelli di maggior talento. Interessante la suddivisione dei giocatori stessi in quattro categorie: 1) leader (non serve spiegazione) 2) producer (chi produce rendimento e/o statistiche) 3) role player (riserva/(comprimario che ricopre un ruolo specifico, ad esempio il 3rd down back, ovvero il running back che entra in campo al 3° down) 4) chemistry guy (chi “fa spogliatoio”). Favre, secondo Mariucci, era 1-2-4, ma ci si può muovere di categoria in categoria con il tempo e con il crescere delle doti e della sicurezza in sé. Cruciale l’importanza che il coach dava ai chemistry guys: «un anno mi si è infortunato gravemente Garrison Hearst ma io l’ho tenuto e pagato per altre due stagioni senza che giocasse, e solo perché era un eccezionale uomo-spogliatoio. Poi nel 2001 è tornato in campo ed è stato il primo giocatore NFL a riprendere a giocare nonostante una necrosi all’osso, venendo anche eletto Comeback Player of the Year».
Infine, le dimostrazioni pratiche nella tecnica di arretramento (drop back) e di movimento del quarterback, condotte nel salone dell’hotel, per l’impossibilità di marciare fino al Vigorelli a causa del maltempo. «Avrei bisogno di altri due giorni» ha chiuso, rendendosi però conto che il 90% dei suoi ascoltatori, rapiti, doveva tornare a casa perché era domenica sera, e il lunedì, per chi fa football in Italia, è giorno di lavoro normale.

Roberto Gotta
(per gentile concessione dell’autore, fonte: PigSkin)

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