Per chi tifava Paolo Valenti

18 Aprile 2010 di Stefano Olivari

di Alberto Facchinetti
Il giornalismo sportivo che si sforza almeno di sembrare neutrale è solo un ricordo. Rimane una distinzione fra carta stampata e televisione, ma è sempre più sfumata…

Il reporter-tifoso è una delle figure che hanno danneggiato maggiormente il giornalismo sportivo in Italia. Mario Sconcerti ha scritto nel 2005 un articolo-saggio per Linea Bianca dal titolo Quel che resta del giornalismo. “Nel calcio – scrive – non esiste più l’opinione, esiste lo schieramento. Non c’è una verità assoluta e nemmeno parziale. Esistono solo verità settarie, una verità per ogni singola squadra. Il concetto di bene e male risponde a un’unica domanda: è utile alla mia squadra? Se è utile è buono, altrimenti è il male. Chi porta avanti tesi o idee si trova dentro questa tagliola. O è un nemico o un eroe, non ci sono mezze misure. E senza mezze misure non ci si avvicina nemmeno lontanamente alla verità”.
I giornalisti-tifosi, che fanno la fortuna delle trasmissioni sportive delle tv locali, sono nati però sulla carta stampata. Il Tifone nacque da un’idea di Giuseppe Colalucci, ex ufficio stampa della A.S. Roma. Era un settimanale “all’insegna di chi non è con me è contro di me”. Sono state però le tv locali a sdoganare la figura del giornalista-tifoso. Un tempo le cose erano diverse. Anche in tv. Paolo Valenti, conduttore di 90esimo Minuto, non faceva mai trasparire la sua fede sportiva. Scrive Gianni Mura: “Valenti era un signore, intanto perché non sbagliava un aggettivo, un congiuntivo, non si ripeteva, e poi perché stava davvero sopra le parti. Non si è mai saputo per chi tifasse Paolo, solo il giorno dopo la sua morte Martellini si sentì autorizzato a svelare che tifava per la Fiorentina”. In verità Nando Martellini aveva gia svelato l’arcano nel 1976 con un pezzo sul Corriere sportivo. “La Fiorentina, tuttavia, vanta a Roma un sostenitore illustre: Paolo Valenti, il responsabile sportivo della Domenica in”. Era quindi apparsa sui giornali quella che era la passione calcistica di Valenti, ma era passata praticamente inosservata: il giornalista rimaneva al di sopra di ogni logica di tifo. “Molti mi scrivono e mi chiedono – scrisse Valenti – per quale squadra faccio il tifo, perché, dicono, non si capisce. Sono contento di questo perché evidentemente riesco a rimanere neutrale”.
Quasi tutti avevano la squadra del cuore, anche allora. Assai difficile però scoprirla. Martellini tifava Perugia. Enrico Ameri Genoa. Beppe Barletti Juventus. Sandro Ciotti era laziale, Carlo Sassi interista. Per il Milan erano Adriano De Zan e Beppe Viola. Proprio quest’ultimo raccontò (nel 1978 in un articolo per il Radiocorriere Tv) come uscì fuori per quale squadra tenesse; con l’ironia che sempre lo ha contraddistinto nella sua carriera, scrisse: “Sandro Mazzola si merita una dose di cianuro da quando mi definì in diretta (eravamo in 90esimo minuto) un fedele milanista contravvenendo clamorosamente al segreto professionale che vuole tutti i cronisti di calcio al di sopra di ogni sospetto. Lo disse guardandomi negli occhi, con una finta di baffi che mi mise col sederino per terra proprio come faceva ai suoi tempi nei confronti di quei terzinoni grandi e grossi che avevano l’ingrato compito di controllarlo. Il dribbling, il tunnel – chiamatelo un po’ come volete – me lo sono legato al dito e non potendo più prendermi la rivincita, perché dalle aree di rigore ormai lui gira al largo, ne approfitto in questa occasione”. Viola prendeva le distanza, pur tifando. “Con distacco passionale”, diceva di lui Oreste del Buono.
Tifavano quindi pure quelli di allora. Ma con altra classe, rispetto a quelli di oggi. Non c’è confronto con Elio Corno e Tiziano Crudeli. La coppia collaudata (il primo interista, il secondo milanista) che nelle locali (ora sono a 7gold, ma prima erano a Telelombardia) litiga per difendere i colori della propria squadra (poi la realtà è un’altra, tant’è che hanno un sito internet in comune). “I vari Crudeli e Corno, tanto per fare i nomi, non fanno altro – ci ha risposto Andrea Sorrentino – che abbassare il livello della discussione, limitandola solo allo stolido muro contro muro di due tifosi che non andranno mai d’accordo. Con buona pace dello spirito sportivo che dovrebbe animare ogni dibattito sul calcio”. Gianni Mura fa un po’ la storia del rapporto tra giornalismo e tifo. “La mia generazione ha avuto dei maestri. Appena entrato in Gazzetta mi hanno detto che un giornalista non deve tifare. O, se proprio ci tiene, può tifare internamente, ma nei fatti essere assolutamente imparziale. Più in là, già con Biscardi in Rai, è cominciato il degrado, accentuato dagli imitatori. Completamente stravolto il modello di partenza. Il Processo alla tappa di Sergio Zavoli, al Giro d’Italia. Non più pareri autorevoli, anche di segno contrario, ma accentuato macchiettismo, commedia dell’arte con guitti reclutati per far casino. La figura del giornalista super partes (ammesso che esistesse davvero) è stata cambiata: il giornalista è tifoso, molto tifoso, come voi che lo state guardando”.
Alcuni dei giornalisti che ho intervistato pensano che la figura del reporter-tifoso, che imperversa nelle tv locali, non esista nei quotidiani perché non ha alcun senso che esista. “I giornali – dice Gianni Visnadi – devono informare. In tv, nelle tv locali ma non solo, i giornalisti-tifosi sono quasi sempre solo tifosi e i giornali spesso nemmeno li leggono”. Non esistono per Giorgio Micheletti “primo perché i direttori fanno una turnazione di cronisti proprio per evitare questo pericolo, secondo perché la gente da una tv locale accetta e per certi versi pretende proprio questo, ma dal suo giornale vuole rigore e distacco, critica ma non preconcetti. Oltretutto, sarà crudo da dirsi ma è vero, se in una tv fare il giornalista tifoso diventa una sorta di lasciapassare e vitalizio, nei giornali si rivela sempre un boomerang, perché verba volant ma scripta manent”. “L’attesa del pubblico che acquista un quotidiano – dice Fabio Ravezzani – non è quella di trovare un’informazione partigiana così dichiarata. E’ solo una questione di contratto comunicazionale. Il giornalista tifoso è atteso sulla rete privata. Sul giornale ci si aspetta (anche quando non è chiaramente così) l’opinione più asettica del professionista senza volto ed espressioni mimiche che tradiscano le sue passioni”.
Tifosi sì, ma comunque obiettivi. Alcuni giornalisti della carta stampata sostengono che la fede per una maglia non pregiudichi la professionalità. Si può andare in tv a sostenere la propria squadra, ma essere obiettivi quando è ora di fare il pezzo per il giornale. “Il giornalista tifoso – dice Massimo Norrito – è proprio una icona della tv locale. Ci sono però esempi di giornalisti che, smessi i panni dell’obiettività indossati magari in redazione, vestono quelli del tifo quando vanno in tv. Credo però che le due figure siano scisse e in un giornale un giornalista del genere non possa esistere. Sempre che non si voglia confondere, come in alcuni casi avviene, la conoscenza di uomini e cose di una determinata squadra con una vicinanza che non sia soltanto di competenza professionale”. Siamo un po’ tutti tifosi di una squadra o di un giocatore – ammette Nicola Cecere – , ma il lavoro è un’altra cosa. Pretende onestà di pensiero, indipendenza di giudizio. Per fortuna sul giornale gli eccessi di tifo sono rari, l’ambiente è meno inquinato dagli interessi di parrocchia”.
Il problema per alcuni non è che un giornalista abbia una propria squadra del cuore. Non è nascondendo il proprio tifo che uno fa bene il proprio lavoro. “Il giornalista tifoso – dice lo juventino Tony Damascelli – è una garanzia, se urla e si agita è un clown, se nasconde dietro un canneto il proprio tifo è infido, ma è doverosa la sua passione, il suo coinvolgimento emotivo, purché non inquini quello che scriv

e e quello che dice, fermo restando il suo diritto a essere milanista, juventino, interista, romanista, laziale, e via tifando. Chi dice di essere sopra le parti e delle partite può diventare pirandelliano, uno, nessuno, centomila”. Roberto Beccantini, mai ha nascosto la propria fede bianconera. “Penso che un giornalista debba risultare credibile. La qual cosa non gli impedirà mai di essere tifoso. In genere, diffido più degli agnostici che non degli schierati. L’importante è che il lettore sappia con chi ha a che fare. Sta poi a noi conquistarlo con la scrittura, la competenza e l’onestà intellettuale. Se un giornalista è credibile, potrà permettersi interventi anche duri e, in qualche caso, sbagliati. Salvo rare eccezioni, il tifoso non ha l’anello al naso. È curioso. Seleziona. Promuove. Boccia. Con molti lettori del Toro intrattengo un rapporto garbato ma fermo, sintesi di un carteggio battezzato fra gli insulti. Alle sue firme, il lettore chiede coraggio, non necessariamente una copia delle idee che coltiva”.
Ma piovono comunque critiche. Per alcuni questa figura non dovrebbe esistere nei quotidiani, ma la realtà è ormai tutt’altra cosa. Il giornalista-tifoso che scrive per i giornali è un danno per l’informazione. “Non avrebbe senso, professionalmente parlando, ma sono saltate le marcature e questa moda di schierarsi prende sempre più piede”, ci confida Sebastiano Vernazza. Ma a volte non è sempre colpa del giornalista. Aggiunge Vernazza: “Attenzione, però: i giornalisti-tifosi rispondono a esigenze editoriali, esistono perché l’azienda ha bisogno di blandire il cliente-tifoso. Purtroppo questa tendenza inquina anche la nuda cronaca. Penso a Tuttosport rispetto a Calciopoli: il giornale sportivo di Torino ha fatto una spudorata campagna pro Juve, incurante dell’evidenza dei fatti, e si è spinto così in là che a un certo momento ha irritato e rischiato di perdere l’altra metà del suo lettorato, quella rappresentata dai tifosi granata”. Mura prende una posizione chiara: “Se io fossi direttore di quel giornale direi a Tizio e Caio: o di qua o di là, troppo comodo tenere i piedi in due scarpe, scegli e sappiti regolare. Questo non avviene perché nei giornali si è convinti che la popolarità di Tizio e Caio si riverberi sulle vendite, faccia da traino. Invece fa solo pena (parlo ancora per me, naturalmente)”. Nemmeno Maurizio Crosetti difende la categoria a spada tratta. Certi giornalisti-tifosi li vede in azione dal vivo e non li sopporta. “Venite ad assistere a qualche partita in tribuna stampa, per esempio all’Olimpico di Roma, e capirete cos’è un giornalista tifoso. Anzi, un giornalista ultrà. E’ chiaro che non avrebbe senso di esistere, ma è inevitabile: essere faziosi dipende da quello che si è, non dal mestiere che si fa”. Per Giancarlo Dotto “il giornalista che scrive anche nei giornali di sport non dovrebbe dichiarare in tivù la sua appartenenza tifosa. Non risulta più credibile. Lo potrebbe fare solo essendo infinitamente autorevole e dunque credibile. Ma sono cinque in Italia, forse sei. Purtroppo a farlo, a dichiararsi, sono gli scalzacani”. “Il giornalista tifoso – aggiunge Sorrentino – non ha senso in tv, o comunque ha solo una funzione negativa, quindi non è giusto trasportarlo sui giornali. Siamo arrivati a un punto in cui, ormai è chiaro, c’è un fortissimo bisogno di riportare un po’ di moralità e di sportività anche nei dibattiti più accesi, quindi bisognerebbe piantarla coi guitti e coi clown. Oppure, se proprio vogliamo averli in trasmissione perché fanno un po’ di audience, d’accordo: ma releghiamoli appunto al ruolo di guitti, mettiamoli dentro dei siparietti tutti per loro, anziché ospitarli come guest star facendoli partecipare al dibattito. Se il guitto è seduto di fianco all’inviato del grande giornale o fa domande all’allenatore di turno, il telespettatore fa confusione e pensa che pure il guitto sia un giornalista, con tutte le conseguenze del caso”. Per Emanuele Gamba “ha senso nel giornalismo attuale, in cui si preferisce confezionare un’informazione a uso e consumo del target cui si crede di rivolgersi e non, piuttosto, basata semplicemente sul resoconto degli avvenimenti, sulla loro comprensione, sul loro approfondimento. In un certo senso, l’articolo è ormai considerato una specie di gadget da offrire al consumatore che ha certi gusti, non un prodotto che possa catturare e stimolare la curiosità del potenziale cliente-lettore”.
Il giornalista-tifoso tuttavia piace molto poco. “Il giornalista tifoso – dice Gian Piero Scevola – è un aborto che non dovrebbe nemmeno esistere, perché chi fa giornalismo può anche tifare (io ho giocato nell’Inter e qualcosa mi è rimasto dentro), ma quando scrive o affronta certi argomenti critici deve assolutamente essere imparziale. Purtroppo vediamo, e non faccio nomi perché ne conosco tanti, che il tifo ha preso piede anche negli articoli dei quotidiani sportivi e politici”. “Il giornalista di riferimento – dice Ivan Zazzaroni – non è un giornalista ma una figura che non amo e che il telespettatore tifoso richiede, quasi pretende”. Per Paolo Ziliani addirittura “il giornalista tifoso non è giornalista”. Non negano l’esistenza del giornalista-tifoso né Sandro Piccinini né Italo Cucci. Anche nei quotidiani. “Esiste ma, come per le tv, soprattutto in quelli locali”, dice Piccinini. Per Cucci è “storica la scelta di tutti i quotidiani di schierarsi a favore della squadra locale per motivi puramente diffusionali. Non esiste, in Italia, un giornale che non senta l’influsso territoriale”. Antonio Dipollina sostiene che ci siano ma solo in alcuni contesti: “Nei giornali ci sono ottimi – o pessimi – giornalisti, giornalisti tifosi nel senso che sono sensibili alle istanze di questa o quella società (e in questo istigati dalla direzione che sa benissimo che nel bacino di pubblico ci sono soprattutto tifosi di questa o quella squadra), giornalisti che diventano tifosi quando le italiane giocano in coppa, opinionisti che non si occupano stabilmente di sport (lo faccio anch’io) che scrivono ogni tanto articoli in qualità di tifosi. Ovvero c’è di tutto, ma nessun giornalista potrà mai istituzionalizzare la propria qualità di tifoso in un giornale in teoria indipendente, soprattutto per il timore di dispiacere ai lettori tifosi di altre squadre: tanto è vero che, proprio perché nessuno potrà mai dichiararlo in un giornale normale, esiste già un quotidiano (Il romanista) che ha saltato il guado di netto e mi risulta che se ne vorrebbero fare anche altri simili”.
I giornalisti-tifosi esistono. In maggior misura nelle tv locali, ma ci sono anche nei quotidiani. Le locali li pretendono: in studio questa figura recita quasi sempre la parte da protagonista. Perché evidentemente i telespettatori vogliono questo. Che la loro fede calcistica sia difesa da qualcuno altro in diretta tv. E bisogna dire poi che in generale il gusto dello telespettatore è cambiato: ormai ha fatto l’abitudine a certi teatrini trash, in onda praticamente in ogni canale. Nei quotidiani la situazione è un po’ diversa. Ma esistono pure là. Un tempo per un giornalista della carta stampata era proibito tifare per una squadra. Sarebbe venuta meno la sua credibilità. Le simpatie, se c’erano, dovevano rimanere nascoste. Soprattutto se si lavorava in un giornale nazionale (in quelli locali è sempre stato un po’ diverso, perché l’influsso territoriale ha da sempre una sua importanza). Oggi alcuni giornali continuano a chiedere imparzialità. Anche da chi un attimo prima ha vestito i panni del tifoso in qualche studio televisivo. Ma ci sono anche direzioni che indicano una via diversa. Spesso essere sensibili ad alcune squadre, fa vendere più giornali. Alcuni direttori vogliono giornalisti-tifosi perché i lettori possano identificarsi con loro e quindi acquistare il quotidiano. Di più: sono contenti che un proprio giornalista appaia in video perché fa da traino alle vendite. Essere tifosi no
n significa per forza fare male il proprio mestiere. Esistono esempi di giornalisti che non nascondono la propria fede, riuscendo tuttavia ad essere nei loro pezzi imparziale e obiettivi. Ma questi sono casi che si possono contare sulle dita di una mano. La realtà è un’altra. A tifare tra i giornalisti sono soprattutto gli “scalzacani”, quelli che il prestigio non l’ hanno ottenuto con la credibilità.
Alberto Facchinetti
(per gentile concessione dell’autore, fonte: ‘Il giornalismo sportivo. Il rapporto tra la carta stampata e le tv locali da Gianni Brera ad oggi’, tesi di laurea in discipline dell’Arte, Musica e Spettacolo all’Università di Padova, anno accademico 2006-2007)

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