Il fuoco sacro di fratel Brambilla

16 Dicembre 2009 di Stefano Olivari

di Stefano Olivari
Il problema delle ragazze, la leggenda del Pavoniano, il silenzio mediatico, l’occasione persa del grande Geas e il passato possibile.

Dal minibasket alla serie A, Dante Gurioli ha allenato tutto e seguito ogni trasformazione del basket di Milano e provincia negli ultimi quaranta anni: ‘’A livello maschile la passione e la base hanno tenuto, i numeri sono paragonabili a quelli degli anni d’oro in cui il basket si confrontava di fatto solo con il calcio e non con le mille alternative che un ragazzo ha oggi. Il vero problema è femminile: fino agli anni Settanta non c’era paragone con la pallavolo, oggi dopo il minibasket una ragazza fa fatica ad andare avanti. Non a caso il numero delle praticanti è crollato’’. Da forzato del reclutamento per il suo CMB Rho, Gurioli propone anche un’analisi generazionale: ‘’A Milano e dintorni all’oratorio non va più nessuno, perlomeno nessuno ci va più per fare sport. La pallacanestro adesso più di una volta si fa nelle palestre, nelle società: è logico che in palestra da bambino deve essere qualcuno che ti ci porti’’. Da ex allenatore della Xerox Milano e vincitore di uno storico derby contro il Billy di Peterson, Gurioli ha un’idea del pubblico milanese simile a quella di Cappellari: ‘’Con la pubblicità giusta l’Olimpia potrebbe giocare una eventuale finale scudetto anche a San Siro, ma per le partite normali si fa fatica a riempire il Palalido: adesso come una volta, ci tengo a sottolineare. Il passato non è tutto rosa. Milano ha sempre preteso l’evento, vale anche per il calcio. Portiamo qui i Lakers e ci saranno gli ottantamila del rugby, mentre contro Ferrara alla partita andranno solo i tifosi e nemmeno tutti’’. Non è insomma un problema del basket, ma della grande città: ‘’Il basket di alto livello è quasi sempre in perdita, ma quello di livello medio qui è improponibile: l’attività minore, e per minore in senso milanese intendo anche LegaDue, qui non può purtroppo esistere. E se esiste non può resistere’’. La differenza con realtà storiche come Varese e Cantù è evidente: ‘’La Armani deve comprare spazi sui giornali per comunicare sedi e orari delle partite, a Varese e Cantù in qualsiasi bar sanno quando è la prossima partita della squadra. Anche quelli che non si interessano di basket’’.
Il torneo cittadino sedimentato nella memoria storica è senza dubbio quello del Pavoniano, messo in piedi dal fuoco sacro di fratel Carmelo Brambilla. Che sul campo di via Giusti, dal 1957 al 1971 nei mesi di giugno e luglio, riusciva a radunare squadre ‘open’ con nomi inimmaginabili. Ogni formazione poteva tesserare giocatori di altre società, c’erano tribunette e bar, ogni sera fino all’una di notte l’ambiente era caldissimo in tutti i sensi. La finale del 1971 fu giocata da Simmenthal e Forst, con in campo Brumatti, Masini, Bariviera, Kenney, Della Fiori, Lienhard, Recalcati, Marzorati. Intanto a bordo campo si faceva basket-mercato ad ogni livello, non a caso i giornalisti ci passavano le giornate. Il Pavoniano fu cuore ed anima di un’epoca cestistica e di una Milano che non c’è più, oltre a lanciare nel grande basket tante persone: fra queste Taurisano e Carlo Recalcati. Il Tau era proprio un uomo di fratel Brambilla, che dopo il servizio militare nel 1956 lo ingaggiò (si fa per dire) per coordinare l’attività giovanile del Pavoniano, erede degli Artigianelli degli anni Cinquanta. I giovani reclutati furono all’inizio quelli di via Legnano, Paolo Sarpi Canonica. Insomma, quelli nati vicino all’Arena napoleonica. Proprio in via Paolo Sarpi, ai giorni nostri cuore della Chinatown milanese, venne scoperto Recalcati. Fratel Brambilla fu un grande evangelizzatore, forse anche a livello religioso ma di sicuro nel basket: conduceva personalmente gli allenamenti atletici al campo XXV Aprile (fra Palalido e PalaSharp, con i riferimenti di oggi), entrava nelle questioni tecniche ed ovviamente in quelle etiche. Nel 1974-75 la Forst Cantù allenata da Taurisano e con Recalcati (che già aveva vinto il titolo nel 1968) protagonista diventò campione d’Italia. Uno scudetto nato all’oratorio.
Questa città di praticanti, prima ancora che di tifosi, è la Milano di Fabio Guidoni: allenatore di lungo corso, fra l’altro anche del Geas Sesto San Giovanni che nel 1978 conquistò una storica Coppa Campioni, ma anche per quasi due decenni anima dirigenziale della Pallacanestro Milano. ‘’La concorrenza di Inter e Milan è sempre stata troppo forte, in proporzione sono stati pochi i bambini del minibasket a trasformarsi da adulti in tifosi di basket. Colpa anche della stampa, che da un’alternativa cittadina avrebbe avuto solo vantaggi e che invece ha affossato con il silenzio qualsiasi iniziativa non proveniente dall’Olimpia. Parlo degli ultimi trenta anni’’. A chi per anni ha dovuto bussare alla porta di mille istituzioni e aziende, appare chiaro che il modello del mecenatismo è superato: ‘’Bisogna ripensare il modello di società sportiva, si può proprio iniziare da Milano dove nonostante tutto c’è un contesto economico di primo livello. Il punto di partenza è che lo sponsor deve diventare proprietario, come è accaduto con Armani, e poi far percepire la squadra come parte integrante dell’azienda e della comunità. Il pubblico non si coinvolge con i grandi nomi, che quando ci sono i soldi possono anche esserci ma che comunque rimangono di passaggio. Il pubblico si coinvolge con un sistema etico, facendogli sentire la squadra come qualcosa di proprio’’. Un lavoro da portare avanti negli anni, dal punto di vista ideologico ben diverso dalla ricerca del ricco da turlupinare. O, peggio ancora, del riciclatore.
Guidoni ha un’idea chiara dei problemi del basket femminile a Milano, che per lui personalmente è una ferita aperta. E non solo perché sul più bello abbandonò il grande Geas perché la maggior parte delle giocatrici gli era contro: ‘’Ragazze forti ma divise in varie fazioni, con Mabel Bocchi che faceva storia a sé. Semplicemente era troppo personaggio per quel mondo: quando tornammo dalla vittoria in Coppa Campioni partecipammo tutti insieme ad un programma il sabato su Rai Due, poi arrivò un invito da parte della Domenica Sportiva. La Bocchi rispose di sì, ma le compagne forse per non passare in secondo piano si eclissarono. Anche senza di me, se quella squadra fosse rimasta insieme le ragazze milanesi avrebbero avuto un modello positivo’’. E magari sarebbero diventate mamme di appassionati di basket, aggiungiamo noi. Rimpianti, ma anche idee: ‘’La federazione ha perseguito la politica del decentramento fino all’eccesso, con il risultato di avere un movimento fortissimo nei piccoli centri e spesso il deserto nelle grandi città. In questo senso Milano sta meglio di altre metropoli’’.
La fiamma non si è quindi ancora spenta, fra grandi sogni e realismo. Il realismo di Sandro Gamba, l’ex ragazzo di via Washington che lavorava di giorno alla Borletti (disegnatore al reparto cruscotti) e di sera si allenava per…il Borletti con l’impegno da giocatore da Nazionale quale era. Il ragazzo con la mano destra frantumata da un proiettile di guerra che trova un maestro paziente (Borella) e diventa un campione: tutto bellissimo e addirittura vero. Da ricordare camminando per una Milano fatta di persone e ma anche di luoghi. Le sedi storiche: l’Olimpia in corso XXII marzo e poi nella via Caltanissetta fresca di abbandono, la Pallacanestro Milano prima in via Procaccini e poi in via Monreale. I ristoranti di riferimento: il Torchietto, cucina mantovana in zona Navigli, per le scarpette rosse e Mico (oggi ‘Da Giovanni’) in zona stazione Centrale per tutti gli altri. Fra l’altro il locale di via Fara era la sede del famoso Ce

nacolo dove imperatore indiscusso era Aldo Giordani…Le case dei giocatori, i bar dove i giocatori medesimi sono stati qualche volta raccolti da terra, le edicole che avevano Superbasket due ore prima delle altre, il calcio che non monopolizzava la domanda ‘A che squadra tieni?’: un passato possibile, che potrebbe tranquillamente tornare futuro senza operazioni nostalgia. Questa città non guarda al passaporto o al posto nella storia del basket mondiale, ma pretende gente che non si senta di passaggio. Datele uno Jura, datele un D’Antoni. (3-fine).
Stefano Olivari
(pubblicato su Superbasket)
Link alla prima puntata sulla Milano del basket
Link alla seconda puntata sulla Milano del basket

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