La discesa di Van der Velde

22 Novembre 2009 di Simone Basso

di Simone Basso

1. La faccia da schiaffi è di quelle memorabili, i capelli lunghi ma non troppo (da primi Stones) e gli occhietti da eterno furbastro. Johan Van der Velde da Rijsbergen, nato il 12 Dicembre 1956, aveva tutte le caratteristiche del fuoriclasse: il fisico longilineo e la capacità, rara, di essere eccellente in ogni settore richiesto a uno sfregaselle. Si materializzò nei pro, dopo una carriera giovanile notevole, al Giro di Romandia 1978: la matricola ventunenne sorprese tutti nella tappa più dura della corsa elvetica, compreso il suo capitano nonchè leader della corsa, Hennie Kuiper. Con il grande Hennie in crisi, Vdv ebbe via libera per un numero d’alta scuola, salendo verso Thyon nella neve; singolare caratteristica meteorologica che rimbalzerà qua e là nelle vicende agonistiche del nostro. Un presagio o un destino, fate un po’ voi.
2. L’onnipotente Peter Post, a ragione, pensò d’avere in squadra il futuro fenomeno del ciclismo internazionale: anche perchè il presente, per i conterranei di Van Gogh, luccicava talmente tanto da consigliare un bel paio di occhiali da sole…Erano gli anni dei tulipani da esportazione, una sfilata sontuosa di eredi del mitico Janssen: duri a morire, sempre presenti a Tour e classiche (il già citato Kuiper e Zoetemelk) e pirati delle strade nordeuropee alla Raas e alla Knetemann. Una scuola di talenti disposti a tutto per passare il traguardo prima degli altri, con una borsa di trucchi alcune volte oltre l’indecenza (chiedetelo per esempio a Battaglin…). Corsari dell’asfalto rodati dal vento e dalle pioggie di quei luoghi dal panorama meravigliosamente monotono; il Giovanni fu il più fico dell’ultima sfornata, comprendente talenti come Winnen e Lubberding, quest’ultimo lombrosianamente gemello del testone di Rijsbergen.
3. Per Vdv c’è l’intero articolo, ma il biondone bis della Raleigh necessita di una piccola finestra: negli ultimi trent’anni di Tour fu l’unico atleta meritevole (?) di una scorta della gendarmeria per proteggerlo dagli spettatori incazzati. Nel 1983 infatti (con già un successo in tasca ad Aurillac) in un testa a testa con Michel Laurent, accompagnò lo sfortunato alfiere della Coop-Mercier da una parte all’altra della sede stradale, peraltro larghissima. Il poverino fu schiantato dal buon (?) Henk sulle transenne e rovinò a terra dopo un salto mortale spettacolare. Il delinquenziale pluricampione olandese trovò persino il tempo di esultare, prima della prevedibile fuga in albergo seguita dall’inevitabile squalifica: da quel giorno, sulle cime alpestri, per sapere dov’era Lubberding bastò ascoltare con attenzione la reazione acustica della folla. Al passare degli eroi della strada, il tulipano cattivo venne accolto da una via lattea di fischi, che lo accompagnò fino ai sospirati Campi Elisi.
4. Per tornare al Van, il talento olandese rese ancor più memorabile il noviziato portando a casa anche i Giri di Gran Bretagna e Olanda: facile ricordarsi delle lodi spericolate della stampa arancione, quando due anni dopo concluse in maglia bianca (dodicesimo assoluto) una Grande Boucle tutta orange, scudiero prezioso del Zoetemelk finalmente vincitore. Quella sfilata orgogliosa dei Paesi Bassi a Parigi (undici vittorie di tappa e con il bonus del Kuiper secondo in classifica) fu anticipata dall’esibizione muscolare di Giovanni al Delfinato: all’ottava frazione nei pressi di Grenoble, con ai bordi della strada la neve, improvvisò un esercizio fuga che sbancò la corsa e impressionò i tecnici.
5. C’era abbastanza materiale per preparare la successione ufficiale, peccato che il lungagnone nelle stagioni seguenti confermasse una predisposizione genetica all’evasione delle proprie responsabilità. Detto in soldoni, il pigro Johan non ne volle sapere di spiccare il salto definitivo verso la gloria assoluta, soddisfatto della dimensione di campioncino imprevedibile e un po’ matto. Iniziò, negli appuntamenti più importanti, a nascondersi come un bambino divertito nel giardino di casa: cucù, indovina dove sono? In prima fila quasi mai, reietto. Allergico alla disciplina di uno squadrone come la Raleigh, oblomoviano dal punto di vista degli allenamenti, nel 1981 riuscì a portare a casa lo scalpo della Liegi-Bastogne-Liegi dopo una corsa perfetta, portata a termine sotto il diluvio. A ribadire l’eterna incompiuta di Vdv, arrivò la positività al pisciatoio e la Doyenne andò all’elvetico Fuchs: un destino dolceamaro, quello del perdente di successo. Eppure, tra una delusione e l’altra, mise insieme in pochi anni un bel carnet: due titoli nazionali, Zurigo, eccellenti prestazioni al Tour culminate con un terzo posto promettentissimo nel 1982. L’anno dopo, in un’edizione durissima, si immolò agli dei con una caduta spaventosa; un incidente che avrebbe potuto avere conseguenze ben più gravi della frattura alla spalla.
6. La rottura con il padrino Post, alla vigilia della diaspora dello squadrone che caratterizzò un decennio, significò la scelta bizzarra dello sbarco in Italia; alla corte di Mauro Battaglini. Attratto da una barca di soldi, in quel periodo fu l’unico corridore di un certo livello che accettò le lusinghe del Bel Paese, poco conveniente per un veltro delle sue caratteristiche. Immaginiamolo infatti immerso in quella specie di Medioevo ciclistico, caratterizzato da gare ammaestrate, prive di grande agonismo e con percorsi degni della gloriosa Udace. In quel biennio raccolse una valanga di piazzamenti, buttandosi al colmo della disperazione anche nelle volate di gruppo, vinse (naturalmente per distacco) una splendida Coppa Bernocchi e fu testimone oculare al Giro’84 di un fenomeno della natura quale il Laurent Fignon dell’anno orwelliano. Quel dì ad Arabba la sua fu un’impresa, perchè resistette al francese fino all’ultima salita, esibendo un tenacissimo elastico di fronte alle quattro ruote motrici del parigino.
7. Il 1986 segnò un momentaneo ritorno all’ovile dell’allora Panasonic e l’ormai eterna promessa, di un futuro visto solamente in cartolina, si ritagliò un paio di giornate memorabili nelle corse a tappe: andò a segno sia al Giro, a Pejo dopo la canonica sgroppata solista e l’altrettanto abituale tempo da cani, che al Tour. L’approdo alla Gis di Waldemaro Bartolozzi fu l’ennesimo capitolo della saga confusa dell’olandese errante; “leggendaria” la vittoria nella classifica a punti del Giro’87, dopo una prima settimana sull’orlo del ritiro, trovò l’ispirazione giusta ai piedi delle Dolomiti e vinse a Sappada e a Canazei. Se la prima vittoria passò quasi in silenzio a causa della celeberrima faida interna alla Carrera (Roche che fregò il Visentini), la cavalcata dei Monti Pallidi ci consegnò una delle immagini più esaltanti del nostro eroe riluttante. Sulla Marmolada piantò in asso signorini come Lejarreta e Millar (che oggi si chiama Philippa York), macinando gli ultimi chilometri in uno stato di grazia regale.
8. Ma fu al Giro 1988 che ci offrì, di ciclamino bardato, l’essenza della sua follia poco lucida; la polaroid di una carriera spericolata, da campione pazzo. Scenario maestoso ed impietoso il Gavia, segni particolari una situazione climatica da tregenda; nev
icò manco fosse Natale. Lo stravagante lungocrinito impose un ritmo proibitivo alla ciurma e accoltellò tutti i favoriti: Hampsten, Breukink, Zimmermann, Chioccioli, Bernard, Delgado, Visentini… Se ne andò via domando lo sterrato e il tempo infame, zingaro filiforme con la testa da sbandato ed il resto da fuoriclasse. Un paio di centimetri di neve sulla capa scoperta, le maniche corte e senza guanti (sic): sulla cima del mostro accennarono a fermare la corsa, ma il gigante della strada fece segno ai pigmei, intirizziti nella bufera, di togliersi di mezzo…In quel gesto l’irrazionalità e la follia del Vdv, che senza nemmeno un giubbino e semiricoperto di ghiaccio e acqua si buttò in discesa. Dopo una serie di curve suicida, l’ex campione olandese crollò dalla bici in preda ad un violento attacco di freddo: dopo qualche attimo di terrore (si pensò a un tuffo nel vuoto delle innumerevoli scarpate di quel monte..) il Giovanni ipercongelato fu ritrovato e condotto in una macchina, per riacquistare un aspetto almeno alla parvenza umano. A Bormio ci arrivò, quarantasei minuti e quarantanove secondi dopo il vincitore di tappa, ovvero il connazionale Erik Breukink: perse praticamente cinquanta minuti in quei momenti drammatici, sorpassato da colleghi più saggi ma altrettanto masochisti, imbacuccati dalla testa ai piedi.
9. Il Vdv, sciagurato all’ennesima potenza, aggiunse una postilla originale alla sua fama: addirittura implose in una vicenda “famigliare” tragicomica. Nell’estate del 1990 il Van fu beccato, accompagnato dal degno fratellino Theo (stessa scatola cranica disabitata, talento ciclistico bonsai), mentre saccheggiava un ufficio. Colto sul fatto con tanto di attrezzi del mestiere (forse il ciclismo era un passatempo?), confessò agli allibiti poliziotti di Zundert le precedenti imprese compiute negli anni passati: sette (!) furti con scasso ai danni di abitazioni e negozi, roba da entusiasmare Arsenio Lupin e altri professionisti del settore. Così, nella maniera più squallida e ridicola, terminò la vicenda del pazzoide Giuàn: dal camper del Gavia alle galere olandesi. Non molto tempo fa, Vdv è ricomparso al Tour: nell’ambiente (dopo tanti anni) erano tutti contenti di riabbracciarlo; magari, dopo i saluti e le frasi di circostanza, qualcuno ha controllato la presenza del proprio portafoglio in tasca. Meglio non fidarsi di quel monello con il viso da bambino invecchiato.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)
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